“Quali animali son quelli che hanno recitata La Cena de le Ceneri?” chiede, ad inizio del primo dialogo, Armesso affrontando il nocciolo del problema che gli interessava.
La domanda, sulle prime, sembra precludere ad una conversazione scherzosa ma, subito, si manifesta il vero intento dell’accusatore: “…desidero di sapere, se fallano coloro che dicono, che tu fai la voce di un cane rabbioso e infuriato, oltre che talvolta fai la simia, talvolta il lupo, talvolta la pica, talvolta il papagallo, talvolta un animale talvolta un altro, meschiando propositi gravi e seriosi, morali e naturali, ignobili e nobili, filosofici e comici?”
Armesso, in pratica, accusa il Nolano di intemperanza e, di più, di mischiare discorsi seri e goliardici, a confondere i suoi interlocutori.
È utile ribadire come i tre interlocutori siano, sempre e comunque, uno: Bruno stesso; pertanto è il Nolano che si autodenuncia e ammette, in qualche modo, questo aspetto del suo carattere: “Concederò facilmente, se non tutto, parte di questo” ma, al tempo stesso, dà ampia giustificazione del suo comportamento:“Non vi maravigliate, fratello, perché questa non fu altro ch’una cena, dove gli cervelli vegnono governati dagli affetti, quali gli vegnon porgiuti dall’efficacia di sapori e fumi de le bevande e cibi. Qual dunque può essere la cena materiale e corporale, tale conseguentemente succede la verbale e spirituale; cossì dunque questa dialogale ha le sue parti varie e diverse, qual varie e diverse quell’altra suole aver le sue; non altrimente questa ha le proprie condizioni, circonstanze e mezzi, che come le proprie potrebbe aver quella.”
Armesso accetta di confrontarsi sulla metafora usata da Filoteo e ribatte: “…ma che dirai, se oltre nel vostro convito, ne la vostra cena appariranno cose, che non son buone né per insalata né per pasto, né per frutti né per ordinario, né fredde né calde, né crude né cotte, né vagliano per l’appetito né per fame, non son buone per sani né per ammalati, e conviene che non escano da mani di cuoco né di speciale?”
È evidente il timore espresso: “Anche durante una cena ti arrabbieresti se le cose non dovessero andare per il verso giusto?”
La risposta di Filoteo/Bruno lascia lo studioso di filosofia alquanto perplesso, anche sconcertato: “Vedrai che né in questo la nostra cena è dissimile a qualunqu’altra esser possa. Come dunque là, nel più bel del mangiare, o ti scotta qualche troppo caldo boccone, di maniera che bisogna cacciarlo de bel nuovo fuora, o piangendo e lagrimando mandarlo vagheggiando per il palato sin tanto che se gli possa donar quella maladetta spinta per il gargazzuolo al basso; overo ti si stupefà qualche dente, o te s’intercepe la lingua che viene ad esser morduta con il pane, o qualche lapillo te si viene a rompere e incalcinarsi tra gli denti per farti regittar tutto il boccone, o qualche pelo o capello del cuoco ti s’inveschia nel palato per farti presso che vomire, o te s’arresta qualche aresta di pesce ne la canna a farti suavemente tussire, o qualche ossetto te s’attraversa ne la gola per metterti in pericolo di suffocare; cossì nella nostra cena, per nostra e comun disgrazia, vi si son trovate cose corrispondenti e proporzionali a quelle. Il che tutto avviene per il peccato dell’antico protoplaste Adamo, per cui la perversa natura umana è condannata ad aver sempre i disgusti gionti ai gusti.”
Bruno attribuisce la colpa di ogni male (incidente, nello specifico del testo) al peccato originale.
Il tono ricalca in modo singolare quello utilizzato ne Lo Spaccio della Bestia Trionfante quando descrive la vita agreste sulla collina natìa di Cicala, a Nola, e ciò dimostra come il filosofo ami alternare un linguaggio autorevole e austero con uno leggero e frivolo, nel pieno rispetto delle sue teorie sapienziali le quali prevedono che ogni cosa sia, od avvenga, sub Sole è buona e giusta; e, per lo stesso principio, addebitare a Padre Adamo ogni colpa dei mali che possono affliggere l’umanità tende, da un lato, a giustificare se stesso per le intemperanze in cui spesso incorre e dall’altro ad affrancare l’umanità da ogni responsabilità (quasi un riconoscimento al De Servo Arbitrio luterano).
Attenzione… che non sia un vero e proprio riconoscimento delle tesi dell’agostiniano di Eisleben lo riscontriamo ponendo in parallelo quest’opera con la citata Lo Spaccio de la Bestia Trionfante in cui l’attacco alle tesi del De Servo Arbitrio è condotto in modo appassionato ed impetuoso.
D’altro canto è lecito pensare che con questa boutade il Nolano abbia voluto prendere in giro proprio i suoi accusatori protestanti usando a propria discolpa una tesi (quella della inevitabilità dell’errore) che avrebbe fatto comodo proprio a loro.
Alla contestazione di Armesso di aver offeso pubblicamente (stampando La Cena de le Ceneri) chi lo aveva tutt’al più attaccato in privato (durante un convivio in casa di amici, quindi in privato, appunto) Bruno si difende argomentando che in quel modo i suoi avversari e detrattori sarebbero stati più accorti prima di attaccarlo.
“Ma con ciò venite a guastare la vostra riputazione, e vi fate più biasimevole che coloro; perché publicamente se dirà che siete impaziente, fantastico, bizarro, capo sventato.” Obietta Armesso e, qui, Bruno dà dimostrazione del suo carattere certamente permaloso ma anche pienamente convinto delle proprie tesi rimbeccando: “Non mi curo, pur che oltre non mi siano essi o altri molesti; e per questo mostro il cinico bastone, acciò che mi lascino star co’ fatti miei in pace; e se non mi vogliono far carezze, non vegnano ad esercitar la loro inciviltà sopra di me.”
Gran bel caratterino, non è vero?!?
La discussione, a questo punto, si trasferisce al carattere più consono ad un filosofo e sul compito stessa della filosofia a cui partecipa anche il neutrale Elitropio.
“Lodiamo, dunque, nel suo geno l’antiquità, quando tali erano gli filosofi che da quelli si promovevano ad essere legislatori, consiliarii e regi; tali erano consiliarii e regi, che da questo essere s’inalzavano a essere sacerdoti. A questi tempi la massima parte di sacerdoti son tali, che son spreggiati essi, e per essi son spreggiate le leggi divine; son tali quasi tutti quei che veggiamo filosofi, che essi son vilipesi, e per essi le scienze vegnono vilipese. Oltre che, tra questi la moltitudine de forfanti, come di urtiche, con gli contrari sogni suole dal suo canto ancora opprimere la rara virtù e veritade, la qual si mostra ai rari.” esorta Filoteo allorquando Elitropio sottolinea la cattiva reputazione dei filosofi nell’ epoca contemporanea.
Non è solo la difesa della categoria, quella di Filoteo, è la velata sottolineatura e biasimo dell’ignoranza.
Sono gli ignoranti a non comprendere il legame esistente tra il sapiente e lo sviluppo delle relazioni sociali. Furono i filosofi, sottolinea Filoteo, ad ispirare re, ministri e persino sacerdoti e offendendo i filosofi si offendono quelle categorie ma anche il sapere nella sua totalità.
Ma questi ignoranti hanno come scopo… opprimere la rara virtù e veritade, la qual si mostra ai rari.
Ed ecco, ancora una volta, il singolare approccio di Bruno con le scuse, con la ritrattazione.
-le mie invettive erano rivolte a ben individuate persone, a pochi- comincia col dire il Nolano, poi chiosa ricordando che la rara virtù e veritade … si mostra ai rari.
Il Nolano, insomma, dichiara di poter anche accettare di aver ecceduto nella condanna dell’inurbanità del popolino inglese ma, altresì, rivendica il suo ruolo di mercurio del sapere, di portatore della verità.
Altra contestazione di Armesso concerne la presunta irriconoscenza dell’ospite, profugo in terra straniera.
ARMESSO: Si dice che non devi esser sollecito nella patria aliena.
FILOTEO: E io dico due cose: prima, che non si deve uccidere un medico straniero, perché tenta di far quelle cure che non fanno i paesani; secondo dico, che al vero filosofo ogni terreno è patria.
La risposta di Bruno è icastica e assume un significato considerevole. La verità, da qualsivoglia lato venga esposta, è salvifica e il portatore di quel messaggio ha legittimo domicilio in ogni luogo e patria.
Il dialogo prosegue, sempre proponendo esempi che richiamano la presenza di contrari in ogni situazione o anche gruppi di persone, sul valore intrinseco del livello culturale degli interlocutori del Nolano durante la fatidica Cena de le Ceneri.
Sarà Elitropio a trovare un esempio satirico a descrivere l’attitudine alla pedanteria da parte degli interlocutori di Bruno durante la detta cena.
ELITROPIO: Questo proposito mi fa ricordar di fra Ventura: il quale, trattando un passo del santo Vangelo, che dice “reddite quae sunt Caesaris Caesari”, apportò a proposito tutti gli nomi de le monete che sono state a’ tempi di romani, con le loro marche e pesi, che non so da qual diavolo di annale o scartafaccio l’avesse racolti, che furono più di cento e vinti, per farne conoscere quanto era studioso e retentivo. A costui, finito il sermone, essendosegli accostato un uom da bene, li disse: – Padre mio reverendo, di grazia, imprestatemi un carlino. – A cui rispose che lui era de l’ordine mendicante.
ARMESSO: A che fine dite questo?
ELITROPIO: Voglio dire che quei che son molto versati circa le dizioni e nomi, e non son solleciti delle cose, cavalcano la medesima mula con questo reverendo padre de le mule.
La tecnica della dissimulazione permise a Giordano Bruno di frequentare, nei suoi quindici anni di peregrinazioni, cattolici e protestanti e tra questi tanto i luterani quanto i calvinisti ma il meglio di sé il Nolano lo diede proprio in Inghilterra nel periodo in cui coesistevano, in modo tutt’altro che pacifico, cattolici, presbiteriani, calvinisti e puritani.
Seppur con alterne fortune, il Nolano riuscì a barcamenarsi per circa tre anni tra queste fazioni, molto probabilmente anche grazie alla benevolenza di Elisabetta I Tudor e del suo entourage, con Robert Dudley, conte di Leicester, e Sir Francis Walshingam in testa (vale la pena ricordare come il primo fosse lo zio di Philip Sidney –amico fraterno di Bruno- e il secondo suo suocero).
Il primo dialogo del De la Causa, Principio e Uno è, forse, la più alta manifestazione di questa tecnica. Già abbiamo osservato come Bruno chieda scusa delle intemperanze verso i suoi detrattori mentre al contempo ne sottolinea la grettezza.
Il momento più saliente lo osserviamo quasi al termine del dialogo allorquando fa fare le lodi di Martin Culpepper e di Tobias Matthew ad Elitropio.
I due succitati personaggi furono, quasi certamente, coloro che denunciarono Bruno di plagio quando, durante una lezione ad Oxford, il Nolano recitò quasi a memoria un ampio passo del De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino, commettendo, va detto, l’errore di non citarne la fonte.
I due dottori, rettore del New College di Oxford il primo e decano della Christ Church il secondo, furono ben lieti di denunciare colui che alcuni mesi prima aveva messo in difficoltà l’intero corpo accademico oxoniense con le sue osservazioni antiaristoteliche.
E Giordano Bruno, redarguito la prima volta, nella sua seconda esperienza oxoniana si vide addirittura allontanato da quell’ateneo. È probabile che furono i buoni auspici dei ministri di Elisabetta I Tudor a consentire un ulteriore abboccamento tra il filosofo nolano e alcuni maggiorenti oxoniani, probabilmente John Underhill, già cappellano della regina, vicecancelliere dell’università di Oxford e futuro vescovo di quella città e George Turner, medico appartenente al Royal College of Physicians. Il giorno delle Ceneri del 1584, ma molto più probabilmente la sera prima, Giordano Bruno disputò con i due maggiorenti oxoniani circa le teorie astronomiche tolemaica e copernicana, nonché della sua, ovvio; ma il risultato di questo terzo abboccamento con la cultura oxoniana fu sventurato come i precedenti.
Si diceva della tecnica della dissimulazione; ebbene, nel caso di Culpepper e Matthew, Bruno è ancora più sottile.
In primo luogo non cita né l’Underhill né il Turner, sembra quasi che non dovesse scusarsi proprio con loro; ma cita come persone dabbene proprio coloro che maggiormente lo osteggiarono, ben prima della sera della famosa cena, ma… non è Filoteo, il filosofo e pensatore, a decantarne le qualità bensì Elitropio, in fin dei conti quella parte dell’animo del Nolano che volge il suo sguardo verso il Sole, che simboleggia non solo la Verità ma anche il potere.
Bel modo di scusarsi…
Alla fine del dialogo Armesso chiede a Filoteo cosa abbia in mano.
FILOTEO: Son certi dialogi.
ARMESSO: La Cena?
FILOTEO: No.
ARMESSO: Che dunque?
FILOTEO: Altri, ne li quali si tratta De la causa, principio e uno secondo la via nostra.
ARMESSO: Quali interlocutori? Forse abbiamo quall’altro diavolo di Frulla o Prudenzio, che di bel nuovo ne mettano in qualche briga.
FILOTEO: Non dubitate, che, tolto uno, tra gli altri tutti son suggetti quieti e onestissimi.
ARMESSO: Sì che, secondo il vostro dire, arremo pure da scardar qualche cosa in questi dialogi ancora?
FILOTEO: Non dubitate, perché più tosto sarrete grattato dove vi prore, che stuzzicato dove vi duole.
Il logico timore di Armesso riguarda il rischio del ripetersi quanto accaduto con la Cena ma Filoteo lo rassicura…ancora una volta a modo suo.
Rassicura il suo interlocutore sulla sobrietà dei nuovi interlocutori ma non cessa di motteggiare e, sul dubbio se nei dialoghi ci fossero elementi di contrasto, chiosa con quel
Non dubitate, perché più tosto sarrete grattato dove vi prore, che stuzzicato dove vi duole.
Ma non finisce di scherzare, il Nolano. La presentazione di Polimnio è un vero effluvio di parole, di coppie di lemmi contrari tra loro, con il chiaro intento di beffarsi dell’intera categoria dei pedanti contro i quali si trova a lottare.
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