C’è un refrain che continua a rovellare (per usare un termine bruniano) in continuazione quando ci si accosta alla figura di Giordano Bruno. Non c’è persona che si approcci al pensiero del Nolano che non si sia posta questa domanda: “Ma Giordano Bruno era un maschilista o un misogino. Non rispettava le donne o le odiava?”
La risposta, che peraltro non ha la pretesa di essere quella inconfutabile, è che un uomo, e probabilmente e anche una donna di un secolo precedente il ventesimo, non si sarebbe proprio posto il quesito.
Comunque… ragioniamoci su.
Un giovane monaco che tra i diciassette e i ventisei anni fosse vissuto in un convento domenicano del XVI secolo, trascorrendo il suo tempo sui libri e poi… sui libri, probabilmente non metteva la “donna” al centro dei suoi pensieri. Quindi né maschilista né femminista e men che meno misogino.
L’ottima biografia sul Nolano di Vincenzo Spampanato ci ha comunque descritto uno spaccato di vita del convento di S. Domenico Maggiore di Napoli, e degli altri conventi campani, in cui più di un confratello era, a vario titolo, interessato al mondo femminile e casi di misoginia, all’interno del mondo monastico, sono ben documentati in quell’opera; ma, pare, che mai il nostro sia stato oggetto di rimproveri e censure che riguardassero i suoi rapporti con il mondo femminile.
Della sua vita fino a quel fatidico 16 giugno 1566, data del suo ingresso come professo nel convento di San Domenico Maggiore, non si sa quasi niente. Due soli indizi ci sono pervenuti per consentirci delle ipotesi.
Il primo è il riferimento alle due cugine, Giulia e Laodomia Savolino, che il Bruno fa ne Gl’ Heroici Furori, rendendole protagoniste dell’ultimo dialogo di quell’opera; il secondo è il riferimento alla fantomatica Signora Morgana B. a cui dedica la sua commedia, Il Candelaio.
Il rapporto con le cugine è più che probabile che fosse antecedente al suo ingresso in convento e il tono di quel quinto dialogo della seconda parte dei Furori lascia trasparire un qualche rapporto che andava al di là di quello familiare, ma nulla più di una pallida sensazione.
Circa l’ineffabile signora Morgana si può ipotizzare qualcosa in più anche se non è individuabile il periodo in cui il giovane Bruno l’abbia conosciuta e/o frequentata.
Tralasciando il rapporto con le due cugine, che non ci porta ad alcuna considerazione conclusiva circa il nostro dubbio, proviamo ad esaminare meglio quello con la signora Morgana.
Il Candelaio fu pubblicato a Parigi il 1581 e descrive la Napoli di quello scorcio di XVI secolo. Or dunque, Morgana potrebbe essere stata una donna napoletana ma anche di qualche altro luogo frequentato dal giovane domenicano tra il 1576 ed il 1581.
Di certo c’è da sottolineare come i toni ed i termini con cui egli si rivolge alla donna non sembrerebbero di una grande considerazione morale; ma, ancora una volta, non dimentichiamo che si tratta di personalità del XVI secolo, non del XXI. Di più, Giordano Bruno ha ripetutamente sottolineato, in particolar modo con il suo De gl’Heroici Furori, che non riconosceva nella “donna” con cui si rapportava la “Laura” di petrarchiana memoria.
La “donna” di Bruno non è un essere angelicato bensì una persona che vive la propria sensualità, e certamente i propri sensi, in modo pieno e completo e se egli le si rivolge con toni e termini molto allusivi, persino scurrili, non per questo bisogna catalogarlo come maschilista o addirittura misogino.
Per mia fé, non è prencipe o cardinale, re, imperadore o papa che mi levarrà questa candela di mano, in questo sollennissimo offertorio. A voi tocca, a voi si dona; e voi o l’attaccarrete al vostro cabinetto o la ficcarrete al vostro candeliero, in superlativo dotta, saggia, bella e generosa mia s[ignora] Morgana: voi, coltivatrice del campo dell’animo mio, che, dopo aver attrite le glebe della sua durezza e assottigliatogli il stile, — acciò che la polverosa nebbia sullevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello, — con acqua divina, che dal fonte del vostro spirto deriva, m’abbeveraste l’intelletto.
Che la S. Morgana B. abbia avuto rapporti con Bruno sembrerebbe molto probabile giacché le avrebbe offerto le sue prime due opere, andate perdute, Gli Pensieri gai e Il tronco d’acqua viva
Però, a tempo che ne posseamo a toccar la mano, per la prima vi indrizzai: Gli pensier gai; apresso: Il tronco d’acqua viva scrive nella dedica alla commedia.
E rapporti non certamente platonici, con una donna che molto probabilmente non era neppure libera da rapporti maritali se…
Salutate da mia parte quell’altro Candelaio di carne ed ossa, delle quali è detto che “Regnum Dei non possidebunt”; e ditegli che non goda tanto che costì si dica la mia memoria esser stata strapazzata a forza di piè di porci e calci d’asini: perché a quest’ora a gli asini son mozze l’orecchie, ed i porci qualche decembre me la pagarranno.
Sembra proprio che tra il giovane Giordano Bruno e quell’altro Candelaio di carne ed ossa non sia finita proprio bene, bensì a calci in culo.
Quattro anni dopo, nel 1584, Giordano Bruno dà alle stampe il De la Causa, Principio e Uno; e dall’incipit di questo quarto dialogo sembra non sia cambiato niente…
Et os vulvae nunquam dicit: sufficit id est, scilicet, videlicet, utpote, quod est dictu, materia (la qual viene significata per queste cose) recipiendis formis numquam expletur.[1]
Sarà anche scurrile ed osceno, Bruno, quando si rapporta con il ‘femminile’, ma la correlazione tra la Materia, che riceve l’azione dell’Anima Mundi a fecondarne le forme accidentali e la donna che riceve l’azione dell’uomo per fecondarne il loro futuro (i figli) mi sembra la più puntuale possibile.
È in questa chiave che va letto questo pseudo turpiloquio di Polimnio.
Non è affatto casuale che quelle parole siano poste in bocca a colui che, in quel momento, è oggetto di biasimo da parte sia del Bruno filosofo (Teofilo) che del Bruno verace e popolano (Gervasio) che subito lo stigmatizza.
Perché è cosa ordinaria a voi, signori umanisti, che vi chiamate professori de le buone lettere, quando vi ritrovate pieni di que’ concetti che non possete ritenere, non andate a scaricarli altrove che sopra le povere donne; come quando qualch’altra còlera vi preme, venete ad isfogarla sopra il primo delinquente di vostri scolari. Ma guardatevi, signori Orfei, dal furioso sdegno de le donne tresse.[2]
Il buon Gervasio, come si può notare, stigmatizza anche il solo pensare la donna come oggetto del biasimo maschilista e misogino dei Polimnii ma li accusa anche di pederastia.
Non è, questo, di certo il modo di pensare di una persona che non rispetti il femminile.
Non va sottaciuto, anzi va messo ben in evidenza, che Giordano Bruno è un ermetico ed alchimista quindi è ben consapevole della centralità della donna per compiere l’Opus, la ricerca della pietra filosofale e l’Ars Regia.
È dall’incontro di Re e Regina che nasce il filius philosoforum; è nel vas, l’utero femminile, che il seme macera e prende vita il futuro, l’immortalità della specie.
In conclusione, Bruno aveva piena consapevolezza del ruolo centrale della donna nel percorso alchemico quindi la rispettava; ma chiedergli di divinizzare la donna, come faceva Petrarca è cosa non solo assurda ma addirittura perniciosa proprio perché un alchimista, e Bruno lo era, non poteva considerare che tra donna e uomo vi fosse un rapporto diverso da quello realmente paritario in cui ambedue le parti esplicano appieno le proprie peculiarità al fine del compimento dell’Opus.
[1] “E [come] la bocca della vagina non dice mai basta, così evidentemente, parimenti, ovvero, come si è detto, la materia non è mai sazia di ricevere forme.” Sarà anche scurrile ed osceno, Bruno, quando si rapporta con il ‘femminile’, ma la correlazione tra la Materia, che riceve l’azione dell’Anima Mundi a fecondarne le forme accidentali, e la donna, che riceve l’azione dell’uomo a fecondarne il loro futuro (i figli) mi sembra la più puntuale possibile.
[2] Nelle Metamorfosi di Ovidio – XI, 1-43 – Orfeo scatenò l’ira delle donne della Tracia.
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