Bruno, in coda alla proemiale epistola, ma se vogliano anche prima dell’inizio dell’opera, pone tre sonetti che non possono non essere oggetto di attenta analisi.
I sonetti sono tre ma, letti in consecuzione, acquisiscono un messaggio univoco ben chiaro che Giordano Bruno offre al suo mecenate e ai lettori:
non ho paura di lasciar libero il mio pensiero che legando logica e pratica può raggiungere alti risultati; e finalmente libero dai legacci di teorie e pratiche astruse e soffocanti posso guardare la Verità con la mente affrancata, ringraziando chi mi ha permesso di essere veramente libero.
Il Nolano, a tal fine, paragona il suo pensiero ad un piccolo passero che liberato dalla gabbia di discipline e pratiche soffocanti, perché tali sentiva l’aristotelismo e i canoni della vita monastica, può volare libero e concepire una reale concordanza tra scienza ed arte
fia mestiero a l’oggetto agguagliar l’industrie e l’arti
e lo affida alla protezione degli Dei che restano misconosciuti solo a chi non vuol vedere
arrai per guida un dio, che da chi nulla vede è cieco detto
quindi si dichiara finalmente libero
Uscito de priggione angusta e nera,
Ove tant’anni error stretto m’avinse,
Qua lascio la catena, che mi cinse
La man di mia nemica invid’e fera.
e assicura di non temere l’ignoto che lo attende
Presentarmi a la notte fosca sera oltre non mi potrà
né la vendetta dei suoi nemici;
perché chi vinse
Il gran Piton, e del suo sangue tinse l’acqui del mar, ha spinta mia Megera.
e finalmente si rivolge a chi lo protegge
Ti ringrazio, mio sol, mia diva luce;
Ti consacro il mio cor, eccelsa mano,
Che m’avocaste da quel graffio atroce,
Ch’a meglior stanze a me ti festi duce,
Ch’il cor attrito mi rendeste sano.
Infine, nel terzo sonetto, celebra se stesso e il suo obiettivo:
E chi mi impenna, e chi mi scalda il core?
Chi non mi fa temer fortuna o morte?
Chi le catene ruppe e quelle porte,
Onde rari son sciolti ed escon fore?
L’etadi, gli anni, i mesi, i giorni e l’ore
Figlie ed armi del tempo, e quella corte
A cui né ferro, né diamante è forte,
Assicurato m’han dal suo furore.
Quindi l’ali sicure a l’aria porgo;
Né temo intoppo di cristallo o vetro,
Ma fendo i cieli e a l’infinito m’ergo.
E mentre dal mio globo a gli altri sorgo,
E per l’eterio campo oltre penetro:
Quel ch’altri lungi vede, lascio al tergo.
Ho vinto il tempo e i suoi legacci, afferma in questo sonetto, e vibro le ali verso l’infinito cielo e mentre da questa Terra mi dirigo verso tanti e tanti altri cieli, lascio alle mie spalle coloro che non vi han creduto.
Il tono e le larvate allusioni presenti in particolare nel secondo sonetto, comunque, lasciano il lettore dubbioso sulla identità dei suoi benefattori.
Ti ringrazio, mio sol, mia diva luce;
Ti consacro il mio cor, eccelsa mano,
…
Ch’il cor attrito mi rendeste sano.
Il filosofo, in questi versi, si rivolge alla divinità ma anche più specificamente alla Verità; non si può comunque escludere che, velatamente, si riferisca alla stessa regina, Elisabetta Tudor come invece, più esplicitamente, farà ne Gl’Heroici Furori.
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