Candelaio: Atto I: I personaggi si presentano.
La Commedia prende il là, e i vari personaggi si presentano al pubblico, ciascuno mostrando le proprie peculiarità.
In questo atto, però, brillano per la loro assenza i due principali personaggi femminili, Vittoria e Carubina, che si mostreranno per essere i due volti, opposti, della stessa bramosia: la femminilità: fallace, fedifraga e puttana desiderata dagli stolti e dagli sterili candelai, e quella sincera, fresca ed appassionata desiderata dai saggi, dagli amanti furiosi. È chiaro che, qui, le donne da conquistare rappresentano metaforicamente la Sapienza, deformata ed infida la prima, genuina e schietta la seconda; ricercata dai boriosi ministri della Chiesa cinquecentesca la prima, bramata dal Nolano la seconda.
Il primo a presentarsi al proscenio è lui, il Candelaio, Bonifacio, metafora dello sterile amore della Chiesa, la quale cerca di ottenere l’affetto dei fedeli offrendo in cambio solo il simulacro di un sentimento, che Bruno denunzia come inesistente. L’arte supplisce al difetto della natura, sottolinea infatti Bonifacio sperando di conquistare, comunque, le grazie della cortigiana Vittoria, ma egli niente conosce dell’Arte e spera che la sua azione si esprima in attività che niente hanno a che vedere con la sapienza, unico e vero campo d’azione di discipline come l’alchimia e la magia. Pertanto si renderà inutile il suo auspicio che l’attrazione di Vittoria… potrà esser forzata con questa occolta filosofia, giacché, come egli prosegue …si dice che l’arte magica è di tanta importanza che contra natura fa ritornar gli fiumi a dietro. Ma il cuore di Bonifacio, come quello del clero, è talmente arido e meschino che non è in grado neppure di sapere cosa sia il vero amore, né è in grado di manifestare altro che insignificanti attenzioni che, peraltro, fatalmente sopravvaluta: Grande è la virtù dell’amore. Da onde, o Muse, mi è scorsa tanta vena ed efficacia in far versi, senza che maestro alcuno m’abbia insegnato? Dove mai è stato composto un simile sonetto? tutti versi, dal primo a l’ultimo, finiscono con desinenzia della medesma voce: leggi il Petrarca tutto intiero, discorri tutto l’Ariosto, non trovarai un simile. Ma il sonetto composto da Bonifacio ha proprio nella ripetitività delle sue rime il più grave limite; rime ripetitive come i messaggi d’amore di quel clero che, privi di passione, sono sempre gli stessi e offerti senza vero trasporto.
Il secondo personaggio che simboleggia le pecche della Chiesa è l’avaro Bartolomeo, che crede di poter trasformare il piombo in oro e di trovare la pietra filosofale; ma la magnificenza dell’oro alchemico e la potenza della pietra filosofale non sono né riproducibili né reperibili al di fuori dell’Amore e della gratuita elargizione di sé. Ma Bartolomeo, come quella Chiesa, crede che sia sufficiente una tecnica ben collaudata, e null’altro, per conseguire l’Opera. La signora Argenteria [l’argento] m’affligge, la s[ignora] Orelia [l’oro] m’accora, afferma. Egli non conosce neppure la vera natura dell’Opera e confonde la sapienza con l’argento e la magnificenza con l’oro; e pretende di produrlo seguendo le istruzioni di Cencio che, ovviamente, lo imbroglia e lo deruba. Invece Gioan Bernardo, che chiaramente rappresenta il Nolano, intuisce il vero fine dell’Opera e chiosa… Io mi dubito che l’argento ed il stagno valerà più caro oggimai, che l’oro: cioè la Sapienza (l’argento mercuriale) e la compassione, l’amore, la pietas (lo stagno, il metallo di Giove) avranno il sopravvento sulla magnificenza dell’oro (simbolo del Sole e di Apollo).
L’ultimo personaggio che simboleggia questa “Chiesa matrigna” è il pedante Manfurio, che viene apostrofato da Sanguino con un … Mastro, con questo diavolo di parlare per grammuffo o catacumbaro o delegante e latrinesco, amorbate il cielo, e tutt’il mondo vi burla. Ed è, questo, l’atteggiamento anche dei ministri della Chiesa, che nascondono il proprio pensiero dietro frasi roboanti e non comprensibili ai più, i quali per tutta risposta finiscono con il prenderli in burla. E il lessico di Manfurio, come quello del clero, risulta assolutamente pomposo, sterile e denunzia convinzioni del tutto inconcludenti, come dimostra la seguente frase del pedante: …Itene, dunque, co i fausti volatili. Ma chi è questa che con quel calatho in brachiis me si fa obvia? è una muliercula, quod est per ethimologiam mollis Hercules, opposita iuxta se posita: sexo molle, mobile, fragile ed incostan te, al contrario di Ercole. O bella etimologia! è di mio proprio Marte or ora deprompta. Or dunque, quindi propriam versus [domum] movo il gresso, perché voglio notarla maioribus literis nel mio propriarum elucubrationum libro. Nulla dies sine linea.
Il personaggio in cui Bruno, in qualche modo, si riconosce è il pittore Gioan Bernardo (G. B. come Giordano Bruno, appunto), giovanotto scanzonato, allegro, salace ed amante appassionato.
È il linguaggio tipico del Nolano quello con cui il pittore si rivolge a Bonifacio che gli ha commissionato un ritratto che lo abbellisca: Voi dite di gran cose. È possibile che quello che hai fatto oggi, abbi possuto far ieri o altro giorno, o voi o altro che sii? o che per tutto tempo di vostra vita possiate fare quel che una volta è fatto? Cossì, quel che facesti ieri, non lo farai mai più; ed io mai feci quel ritratto ch’ho fatto oggi, né manco è possibile ch’io possa farlo più; questo sì, che potrò farne un altro.
E dello stesso tenore è quello con cui , rivolgendosi sempre al Candelaio, lo canzona: È buon segno, quando le cose vanno per la mente: guardati che la mente non vadi essa per le cose, perché potrebbe rimaner attaccata con qualche una di quelle, ed il cervello, la sera, indarno l’aspettarebbe a cena; e poi bisognasse far come la matre di fameglia, ch’andava cercando lo intellecto co la lanterna. – Quanto al ritratto, io lo farò quanto prima. Né, come Bruno, ha timore di denunziare le assurde pretese del suo interlocutore, infatti… Da candelaio volete doventar orefice. Ma come, attraverso il pittore, Bruno rimprovera il clero, rappresentato da Bonifacio, della sua inadeguatezza, stoltezza ed aridità di sentimenti così contrasta quegli pseudo studiosi (rappresentati da Cencio), che travisano e mistificano il messaggio alchemico dando un’interpretazione di tipo “metallurgico” a questa disciplina: Queste diavolo de raggioni no mi toccano punto l’intellecto. Io vorrei veder l’oro fatto e voi meglior vestito che non andiate. Penso ben che, si tu sapessi far oro, non venderesti la ricetta da far oro, ma con essa lo faresti; e, mentre fai oro per un altro, per fargli vedere la esperienza, lo faresti per te, a fin di non aver bisogno di vendere il secreto. E subito dopo, per redarguirlo della sua avidità… Dovevi ponerti in pegno e securtà, e dire: – Mess[er], avanzarò oro per me e per te; – ché certo tanto lui quanto altro ti arebbe nientemanco soccorso; e quell’oro che cerchi dalle borse, l’aresti con tua meglior riputazione ed onore sfornato dalla tua fornace.
Due sono i personaggi che simboleggiano la cultura alchemica del XVI secolo, che ha dimenticato le origini ermetiche della stessa: Cencio, appunto, e Scaramurè. Ambedue imbroglioni, pronti ad imbonire i loro interlocutori per trarne illecito profitto, ed il primo in grado di raggirare anche l’altro, e più pericoloso perché capace di infarcire le sue menzogne ed i suoi imbrogli con tutta una serie di citazioni assolutamente corrette che lo ripropongono come persona degna di fede.
Cossì bisogna guidar quest’opra, per la doctrina di Ermete e di Geber. La materia di tutti metalli è Mercurio: a Saturno appartiene il piombo, a Giove il stagno, a Marte il ferro, al Sole l’oro, a Venere il bronzo, alla Luna l’argento.Lo argento vivo si attribuisce a Mercurio particularmente, e si trova nella sustanza di tutti gli altri metalli: però si dice nuncio di Dei, maschio co maschii, e femina co femine. Di questi metalli Mercurio Trimegisto chiamò il cielo padre, e la terra madre; e disse che questa madre ora è impregnata ne monti, or nelle valli, or nelle campagne, or nel mare, or ne gli abissi ed antri: il quale enigma ti ho detto che cosa significa. Nel grembo de la terra la materia di tutti metalli afferma esser questa insieme col solfro il dottissimo Avicenna, nell’Epistola scritta ad Hazez: alla quale opinione postpongo quella di Ermete, che vuole la materia di metalli esserno gli elementi tutti; ed insieme con Alberto Magno chiamo ridicula la sentenza attribuita a Democrito da gli alchimisti, che la calcina e lisciva – per la quale intendono l’acquaforte – siino materia di metalli tutti. Né tampoco posso approvar la sentenza di Gilgile, nel suo libro De’ secreti, dove vuole “metallorum materiam esse cinerem infusum” o, perché vedeva che “cinis liquatur in vitrum et congelatur rigido”: al quale errore suttilmente va obviando il prencipe Alberto… (Alchimia “Tomistica”)
In buona sostanza, con la caratterizzazione di queste peculiarità, Bruno ammonisce a non fidarsi né delle belle parole né della pomposa manifestazione di sapienza che, da sola, non è garanzia di un corretto fine in chi ne fa sfoggio.
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