Lugano, ottobre 1848
“Arrivo or ora da Firenze, Maestro;” stava dicendo un giovanottone bruno, con una folta barba nera, tipica dei carbonari, al suo interlocutore, che lo aveva accolto nel proprio studio privato, seduto ad una vecchia scrivania. “…e ho le notizie che cercavate. Pare che l’incartamento del Processo Bruno sia stato realmente in possesso di Napoleone Bonaparte, come vi era stato riferito e che alla sua morte sia entrato nella disponibilità della Regina d’Olanda prima, e di suo figlio Luigi Napoleone poi. Ma recuperarlo è pressoché impossibile; specialmente adesso che il giovane Bonaparte è rientrato dal suo esilio inglese ed ha una posizione influente in Parlamento. Però io sono a conoscenza di un particolare sconosciuto ai più. Il Pontefice di Roma, Pio IX, è in possesso del sommario di questo processo… pare che Bonaparte, Luigi Napoleone intendo, glielo abbia regalato qualche anno fa.”
“Siete certo di quel che dite? Perché il giovane Bonaparte avrebbe dovuto farne regalo al Papa; e poi… mica si conoscono, i due?!?” chiese, agitandosi, il Maestro.
“E invece sì!” esclamò il giovane, “Io conosco molto bene il Papa; ho avuto a che fare con lui in un paio di occasioni. Quando era Arcivescovo di Imola mi ha salvato dal capestro, grazie all’intervento di mio zio Orso, suo grande amico ed io sono stato diverse volte suo ospite. Una volta, mentre lo aspettavo nel suo studio, mi misi a leggere un grosso volume che teneva sulla sua scrivania. Era proprio il sommario del processo ad un certo Nolano, un monaco di nome Giordano Bruno. Quando l’Arcivescovo entrò me lo strappò, quasi, di mano ma, lì per lì, non vi ho dato peso; ne ho ricordato l’esistenza solo quando mi è stato detto di cercare notizie di quell’incartamento per voi: e adesso ve lo confermo. Non so se tutto l’incartamento è a Roma, credo di no… almeno così mi assicura il mio confidente di Parigi; ma certamente vi si trova il sommario. Perché non venite con me a Firenze? È il momento giusto per ritornare. A Roma si stanno susseguendo governi su governi. La vostra presenza in Italia, anche se solo a Firenze, sarebbe di grande stimolo per i nostri cugini romani e potremo finalmente liberare Roma da Pio IX e da tutti i preti. E voi potreste tentare di prendere il vostro documento.”
Dei due interlocutori, a parlare era un giovane romagnolo di circa trent’anni, l’avvocato Felice Orsini, elegante nel vestire, seppur non particolarmente ricercato, lo sguardo franco e la voce chiara e profonda; l’altro personaggio, invece, di una quindicina di anni più vecchio, sembrava quasi essere uno di quei preti che Orsini voleva scacciare da Roma e, forse, da tutta la faccia della terra. Quasi paludato in un tetro soprabito nero, nera anche la camicia, si distingueva dai sacerdoti cattolici, forse, per la sola assenza del collarino bianco di quelli. La fronte alta e spaziosa era contornata da una folta capigliatura già parzialmente grigia, come grigia era la rada barba che gli contornava il mento; di corpo era alto e magro, l’incarnato era cereo, più che pallido, e il suo sguardo fisso e acuto ricordava quello dell’aquila, la stessa voce – come aveva appena verificato l’Orsini – era stridula ed acuta come quella del nobile rapace.
–Dunque è costui l’uomo che tutte le polizie d’Europa cercano? L’uomo che ha scritto quelle frasi che ancora mi bruciano l’anima?– era questo il pensiero che continuava a ronzare nella mente di Felice Orsini da quando era entrato nello studio del fondatore della Giovine Italia. Finalmente era al cospetto del suo idolo: Giuseppe Mazzini.
“Calmatevi, Orsini. Andate per gradi… spiegatemi bene cosa accade a Roma. Ma, prima ancora… quale torto personale avete subito da Papa Pio IX? Mi è sembrato di capire che è stato un vostro benefattore!?!” lo apostrofò Mazzini.
“Non amo avere debiti di riconoscenza, Maestro” rispose Orsini, “… e la sorte ha voluto che il Mastai Ferretti mi abbia salvato la vita già due volte… la prima, nel 1836, come vi ho detto, e la seconda volta due anni fa quando, eletto Papa, concesse l’amnistia per i reati politici; non intendo concedergli una terza opportunità.”
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