Il dialogo terzo si apre con l’ennesimo scontro tra Gervasio e Polimnio. Ancora una volta il verace Gervasio dà voce all’acredine di Bruno nei confronti di coloro che si ammantano di un sapere che non hanno perché confondono una sterile cultura basata su letture mandate giù a memoria, senza capirne neppure il significato, con il sapere, quello con la S maiuscola.
La prima accusa che Gervasio muove è l’atteggiamento appiccicoso e petulante che contraddistingue i pedanti: ventosa pedantaria la definisce.
Il secondo rimprovero riguarda addirittura le movenze che i pedanti assumono nell’avvicinarsi ad un interlocutore:
…non è cieco che non possa vedere quanto lui sia pazzo per lettera, mentre degli altri son savii per volgare. Or eccolo in fede mia, come sen viene che par che nel movere di passi ancora sappia caminar per lettera.
Poi va duro nello specifico del loro pseudo-sapere:
“Alcun tempo io pensava che questa prattica fusse il principale; perché un che non sa greco, può intender tutto il senso d’Aristotele e conoscere molti errori in quello, come apertamente si vede che questa idolatria, che versava circa l’autorità di quel filosofo (quanto a le cose naturali principalmente), è a fatto abolita appresso tutti che comprendeno i sensi che apporta questa altra setta; ed uno che non sa né di greco, né di arabico, e forse né di latino, come il Paracelso, può aver meglio conosciuta la natura di medicamenti e medicina che Galeno, Avicenna e tutti che si fanno udir con la lingua romana. Le filosofie e leggi non vanno in perdizione per penuria d’interpreti di paroli, ma di que’ che profondano ne’ sentimenti.
Ma non si ferma qui, il buon Gervasio; sottolinea come lo stesso Nolano, proveniva da una cultura nozionistica e convenzionale ma ben presto si era reso conto della sterilità di questi percorsi sapienziali:
…il Nolano che si ritrova nel medesmo teatro, nella medesma familiarità e domestichezza, tanto che facilmente le combatte dopo aver conosciuti i loro interiori e più profondi sentimenti.
E Bruno, per bocca del ruspante Gervasio, dapprima mette in evidenza come la cultura, con la C maiuscola, non si apprende solo dai libri poi passa a confrontare personalità provenienti da ambienti e studi differenti dove i filosofi possono anche essere ignoranti e gli altri (nello specifico gli studiosi di alchimia e medicina) possono essere molto colti. Per dirla con Gervasio, ne sa più di natura Paracelso, pur non conoscendo il greco, l’arabo o il latino, che un Avicenna o un Galeno, per non parlare dei Pietro Ramo o Francesco Patrizi, che taccia di sterile pedanteria. E prende ad esempio questi ultimi per sottolineare come non è sufficiente contestare Aristotele per essere apprezzati dal Nolano, giacché… l’ignorante resta tale anche quando attacca chi è in errore.
Gervasio, si diceva, mostra di conoscere più che bene le Sacre Scritture:
GERV.\ Dottissimo, messer Poliimnio; io vo’ dire che, se voi aveste tutte le lingue, che son (come dicono i nostri predicatori) settantadue….[1]
Il richiamo ai settantadue nomi di Dio, qui presentati come tutti gli idiomi della Terra, è l’esplicito rimprovero a Polimnio, e per lui a tutti i pedanti grammatici, di confondere una preparazione nozionistica, basata sullo studio asettico di tanti testi, con il vero sapere che è l’armonia di essa conoscenza con abilità e competenze. –Potete aver studiato quanto volete, ma se non siete in grado di mettere in pratica queste conoscenze e, di più, riuscire a sviluppare nuovi modelli cognitivi, non siete nessuno– è questo il senso del discorso di Gervasio.
Ed ecco che, dopo aver celebrato la conoscenza degli alchimisti e medici come Paracelso, ma anche Galeno e Avicenna, in grado di costruire modelli sapienziali, quindi filosofici, pur partendo da argomenti tutt’altro che letterari, Gervasio si occupa di quei filosofi che, nonostante la conoscenza delle settantadue lingue non brillavano, di certo, per le loro capacità logiche:
…non solamente non siegue che siate atto a far giudizio di filosofi, ma oltre non potreste togliere di essere il più gran goffo animale che viva in viso umano: e anco non è che impedisca che uno ch’abbia a pena una de le lingue, ancor bastarda, sia il più sapiente e dotto di tutto il mondo. Or considerate quel profitto ch’han fatto doi cotali, de’ quali è un francese arcipedante,[2] c’ha fatte le Scole sopra le arte liberali e l’Animadversioni contra Aristotele; e un altro sterco di pedanti, italiano,[3] che ha imbrattati tanti quinterni con le sue Discussioni peripatetiche. Facilmente ognun vede ch’il primo molto eloquentemente mostra esser poco savio; il secondo, semplicemente parlando, mostra aver molto del bestiale e asino. Del primo possiamo pur dire che intese Aristotele; ma che l’intese male; e se l’avesse inteso bene, arebbe forse avuto ingegno di far onorata guerra contra lui, come ha fatto il giudiciosissimo Telesio consentino. Del secondo non possiamo dir che l’abbia inteso né male né bene; ma che l’abbia letto e riletto, cucito, scucito e conferito con mill’altri greci autori, amici e nemici di quello; e al fine fatta una grandissima fatica, non solo senza profitto alcuno, ma etiam con un grandissimo sprofitto, di sorte che chi vuol vedere in quanta pazzia e presuntuosa vanità può precipitar e profondare un abito pedantesco, veda quel sol libro, prima che se ne perda la somenza.
La polemica contro il Ramismo e il filosofo Francesco Patrizi rappresentano un indizio fondamentale del pensiero di Giordano Bruno e della Nolana filosofia.
Pierre de la Ramée (anche conosciuto come Pietro Ramo e, in latino, Petrus Ramus) fu filosofo e calvinista tra gli ispiratori delle varie anime del protestantesimo del XVI secolo.
L’avversione di Bruno per il pensiero del Ramo, però, andava oltre l’aspetto religioso del suo insegnamento e prescindeva dal suo anti aristotelismo, bensì era dettato proprio dal rapporto che il filosofo francese aveva con il linguaggio e la pedanteria del suo metodo.
Il metodo imposto dal Ramo – l’ars disserendi, l’arte del ragionamento – si fonda sull’invenzione, ricerca degli argomenti per risolvere una determinata questione, e sulla disposizione degli argomenti stessi in modo efficace, secondo una successione razionale.
Egli asseriva che il pensiero si forma, così come il linguaggio, in modo spontaneo e senza regole esterne, rispondendo ad un’unica legge naturale; pertanto diventava fondamentale studiare la morfologia e la sintassi delle lingue.
È più che evidente che Giordano Bruno, convinto assertore del valore assoluto delle immagini e del ruolo centrale della memoria, specialmente quella visiva nella formulazione del sapere, non poteva accettare tale impostazione di studio e di analisi della cultura.
Circa il secondo soggetto, Francesco Patrizi, l’astio del Nolano, che lo definì persino sterco dei pedanti, probabilmente verteva più sull’aspetto personale che su quello professionale e sul suo pensiero.
In effetti, il Patrizi si distinse piuttosto per la sua acredine verso i pensatori, passati e contemporanei, con cui veniva in contatto che per un sistema di pensiero coerente. Si definiva platonico e ammiratore di Ficino ma non disdegnava i temi degli oracoli zoroastrani, passando bellamente dalla pratica poetica a quella filosofica attraverso un lungo periodo da mercante e fiduciario di nobili veneziani. Nel 1592, molto più tardi del periodo in cui Bruno scriveva il suo De la Causa fu, indirettamente, motivo della sciagura del filosofo campano in quanto ottenne, da papa Clemente VIII, una cattedra presso lo Studium Urbis.
Dal Sommario del processo ricaviamo una frase molto significativa di Giovanni Mocenigo che rivela tanto la considerazione di Bruno per il Patrizi quanto come la nomina di costui alla docenza presso lo Studium Urbis avesse illuso il Nolano
“Ho inteso a dire –denunciava il veneziano– che lo teneva per huomo che non credesse niente et io al principio ch’ei venne a Venetia cominciai a scoprire ch’era eretico, e quando il Patritio andò a Roma da Nostro Signore – cioè presso il Papa-, disse Giordano: -Questo Papa è un galant’huomo perché favorisce i filosofi e posso ancora io sperare d’essere favorito, e so che il Patritio è filosofo, e che non crede niente-, et io…”
[1] Settantadue sono i nomi di Dio secondo la tradizione ebraica; ciò ispira Gervasio a dire che tante sono le lingue parlate nel mondo.
[2] Pierre de la Ramée, calvinista francese, ucciso nella storica notte di San Bartolomeo, 23-24 agosto 1572, le cui teorie Bruno avversò ripetutamente
[3] Il dalmata Francesco Patrizi, ritenuto asino ed ateo dal Nolano. Ironia della sorte, il Patrizi fu uno dei protetti di Ippolito Aldobrandini, Papa Clemente VIII; e, probabilmente, la nomina presso lo Studium urbis da parte dell’Aldobrandini a costui fu uno dei motivi che convinse Giordano Bruno a rientrare in Italia nel 1591.
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