Abbiamo, dunque, qua un Giove, non preso per troppo leggittimo e buon vicario o luogotenente del primo principio e causa universale; ma ben tolto qual cosa variabile suggetta al fato della mutazione.
Questi è il Giove che opera nello Spaccio. Non quindi l’immagine di Dio Padre, la sua rappresentazione profana o mitica, ma l’essere tanto simile all’uomo che questi ha immaginato come archetipo divino di se stesso. È questo l’artefice dello Spaccio de la bestia trionfante; ne consegue quasi naturalmente il significato, non più tanto occulto del titolo del dialogo.
Chi compie lo Spaccio? Non il Giove immagine, sia pur mitologica, di Dio Padre bensì un dio che ebbe de le virtudi e gentilezze, ed ebbe de le dissoluzioni, leggerezze e fragilitadi umane, e talvolta brutali e bestiali… per significar la mutazion de gli affetti suoi diversi che incorre il Giove, l’anima, l’uomo, trovandosi in questa fluttuante materia. E la funzione che egli si auto-assegna è significato il lume intellettuale che dispensa e governa in esso, e distribuisce in quel mirabile architetto gli ordini e sedie de virtudi e vizii. Cos’è quindi la bestia trionfante? Beh, mi sembra persino ovvio. Sono i difetti, i vizi umani che ciascuno di noi, novelli Giove, dobbiamo sostituire con le corrispondenti virtù, nella consapevolezza che in noi operano due forze opposte, come opposti sono l’individuo e la sua ombra di junghiana memoria. Il compito dell’uomo-Giove è quello di elevare le virtù e indirizzare nel luogo di competenza, alle nostre spalle, nell’ombra, nell’area degli istinti da controllare, i nostri vizi. Non la loro mera eliminazione, quindi; eliminazione che non solo è impossibile, ma è persino deleterio perseguire perché ci priverebbe della completezza del nostro “essere”. Questo aveva capito Giordano Bruno nel ‘500, questo ha teorizzato Carl Gustav Jung nel ‘900. Quei superciliosi ipocriti, quegli scìoli, quei pedanti continueranno a vedere nella Bestia trionfante il protestantesimo, oppure la Chiesa cattolica, o Martin Lutero, o il Papa; ma il filosofo nolano guardava a se stesso; era all’elevazione morale dell’uomo che aspirava, al di là di gabbie politiche e religiose che, quando scriveva, non gli appartenevano in alcun modo.
Che l’opera sia indirizzata al miglioramento della condizione umana, nel rispetto delle leggi divine, è anche dimostrato dal continuo alternarsi di “terne” e “settenari” dei quali è disseminata l’opera, e già in partenza, l’epistola esplicatoria. Abbiamo già affrontato l’importanza della Kabbalah per Bruno e del significato del numero tre (la perfezione divina) e del sette (la perfezione dell’azione divina data dalla combinazione del tre, appunto, con il quattro che individua la completezza del creato). Il richiamo continuo a questi due numeri è esplicativo dell’intenzione che Bruno persegue con lo svolgimento dell’opera alchemica riordinatrice, di Giove. Né manca il richiamo all’altro numero “magico” per eccellenza: quel quattro che è manifestazione dell’Universo creato; infatti nel proporre la Verità Bruno la presenta come … la quale è più alta e degna di tutte cose, anzi la prima, ultima e mezza; perché ella empie il campo de l’Entità, Necessità, Bontà, Principio, Mezzo, Fine, Perfezione: si concepe ne gli campi contemplativi metafisico, fisico, morale, logicale. Ancora, quindi, ed in sequenza l’uso di una precisa numerazione di segno cabalistico e alchemico: il 3 (la Verità: prima, ultima e mediana) esprime le 7 qualità divine nei 4 campi della Sophia.
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