Cicada Fate pure ch’io veda, perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare esplicato nell’ordine, in questa milizia, qua descritto.
L’incipit del quinto dialogo della prima parte denuncia l’intento ed il senso che il filosofo nolano intende dare a questo punto dell’Opera. “Fate che io veda…” è l’invocazione che ogni apprendista rivolge al suo maestro alchimista. Poiché di alchimia, di Magia, con la M maiuscola, qui si discorre.
Il verbo vedere, come già si è detto, non indica l’azione degli occhi tesi a mettere a fuoco un’immagine, bensì la capacità dell’intelletto di entrare in contatto con l’anima e riconoscere, attraverso le immagini, come prima attraverso la poesia, il messaggio occulto che tende a mettere in relazione l’uomo con la divinità, utilizzando come strumento non la sapienza bensì l’altro fattore individuato anche dal sommo poeta italiano, Dante Alighieri: l’Amore.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disìo e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
Dunque, il rapporto tra il verace Cicada ed il dotto Tansillo è quello tra l’apprendista e il maestro alchimista.
Invero, il rapporto tra questi due personaggi non rispecchia appieno quello canonico tra le due figure rappresentate; l’apprendista ha il compito di apprendere l’Arte rubandola al Maestro mentre nei Furori il rapporto tra i due personaggi, se non proprio paritetico, è il classico rapporto tra discente e docente, ma la necessità del letterato di esporre la sua opera impone al Bruno di modificare le modalità di apprendimento anche se in controluce si vede chiaramente che di rapporto magico si discorre.
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