La ‘doppia’ enunciazione delle coppie di valori che danno giustificazione alla enigmaticità del numero 2, all’inizio dell’Opera, rappresenta il vero e proprio inizio de “La cena de le Ceneri”.
Perché Giordano Bruno ha voluto cominciare con la celebrazione di un numero, mi chiederete?!?
Oh, bella! Ma perché voleva ingraziarsi la benevolenza delle forze cosmiche che muovono le cose; perché voleva rendere omaggio al Libro dei libri, la Sacra Bibbia, che comincia, non casualmente, con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico, ב (BETH – casa); perché tutta la sua filosofia si basa su DUE coppie: quelle di opposti e quelle di contrari.
Solo accettando quanto sia fondamentale per Bruno la cultura alchemica e cabalistica è possibile penetrare appieno il suo pensiero ermetico.
Attenzione; non intendo avallare la concezione della professoressa Frances Yates che suppone un Giordano Bruno mago; anzi negromante e stregone. Giordano Bruno non era un mago, nel senso di negromante o stregone bensì nel suo significato più nobile di sapiente, come sapienti erano i Santi Magi che accorsero per venerare il bambino Gesù alla sua nascita.
Il problema, anzi il problema dei problemi, da quando esiste il mondo, è la complessità della comunicazione: pur utilizzando lo stesso vocabolario due soggetti ben difficilmente attribuiranno allo stesso termine il medesimo significato; ciascuno di essi gli imporrà un contenuto differente e questo determinerà, com’è sempre accaduto fin dalla notte dei secoli, una concreta incomunicabilità e la confusione babelica delle menti. La celebrazione della dualità ha come effetto la consapevolezza che solo superando la dicotomia di termini e/o valori opposti o contrari tra loro è possibile trovare la Verità, quella con la ‘V’ maiuscola.
Ma torniamo al nostro testo. Bruno propone due serie di ‘coppie’ a motivare l’importanza della dualità; una espressa da Teofilo e l’altra da Frulla: per serio o per faceto, sembra suggerire il Nolano, la dualità manifesta sempre la sua forza.
Anche la maschera di Prudenzio, però, doveva partecipare al rito propiziatorio; ed ecco che il pedante si esibisce in uno sproloquio sulla differenza tra dialogo, tetralogo e pentalogo scaturente dal differente numero degli interlocutori.
Poveri noi! Dio ci liberi da pedanti e saccenti grammatici, sembra voler suggerire il Nolano.
Il Rito, dunque.
Il rito per propiziare la benevolenza degli Dei altro non è che la riproposizione dell’attività dell’alchimista prima di dar inizio all’Opera; d’altro canto lo stesso scopo assume l’omaggio fatto alle Sacre Scritture, più volte citate nel Dialogo.
Ma se il Nolano tende ad ingraziarsi Dei e Divinità, Teofilo, molto più modestamente, si rivolge alle Muse, i benefici numi della sapienza, la Sophia tanto amata e venerata da Bruno; ma, trattandosi solo del racconto di una cena, queste muse sono molto più conformi alla natura umana delle nove figlie di Mnemosine e Zeus e Teofilo si raccomanda a molto umane muse inglesi; muse che gli aprano lo spirito, a cui chiede di soffiare, scaldare e accendere il fuoco nella fucina del sapere e, attraverso l’alambicco estrarre l’essenza necessaria all’Opus (è il solve et coagula degli alchimisti), il tutto con l’aiuto della memoria che sciogliendo il legame dei trenta sigilli esce dal carcere delle ombre delle idee con un canto (strumento magico per eccellenza, come ricorda il mito di Orfeo) sussurrato nell’orecchio (punto di massima congiunzione tra l’uomo ed il divino: Chokhmah e Binah sono le Sephirot su cui meditare per utilizzare al meglio le orecchie).
I miei dodici lettori avranno certamente notato come, laddove non ha la possibilità di riprendere le tesi esposte in ciascuna delle sue opere, Giordano Bruno provvede, quanto meno, a citarle; in questo caso egli evoca le sue opere mnemoniche: l’Explicatio triginta sigillorum il De umbris idearum e, più velatamente, il Cantus circaeus.
Altro aspetto da meditare riguarda il rapporto di Bruno con le donne messo in risalto dalla descrizione delle muse inglesi.
Che il filosofo non intendesse idealizzare la figura femminile appare piuttosto evidente laddove le invoca: –A voi altre, dunque, dico, graziose, gentili, pastose, morbide, gioveni, belle, delicate, biondi capelli, bianche guance, vermiglie gote, labra succhiose, occhi divini, petti di smalto e cuori di diamante; per le quali tanti pensieri fabrico ne la mente, tanti affetti accolgo nel spirto, tante passioni concepo nella vita, tante lacrime verso da gli occhi, tanti suspiri sgombro dal petto e dal cor sfavillo tante fiamme-. Non è certo un linguaggio spirituale, questo utilizzato dal Nolano; ma, ancora una volta invito a considerare il carattere del filosofo così come è manifesto, direttamente e indirettamente, dai suoi comportamenti documentalmente dimostrabili con i suoi scritti ma anche dalle sue azioni o dalla sua inerzia. Giordano Bruno ha sempre dimostrato un carattere impetuoso e impulsivo fin da giovane, vedasi gli episodi del rimbrotto al suo confratello domenicano circa la sterile lettura delle sette allegrezze della Madonna e dell’eliminazione dalle pareti della sua cella delle immaginette sacre di Santa Caterina da Siena e di Sant’Antonino Abate; ma, come fa notare il prof. Vincenzo Spampanato nella sua Vita di Giordano Bruno, finché restò presso il convento di S. Domenico Maggiore a Napoli, non un solo episodio che investisse un qualche suo rapporto con donne gli fu contestato; in un periodo che, per contro, vide più di un suo confratello accusato di tali frequentazioni. Eppure ci riferiamo alla stessa persona definita da Jacopo Corbinelli, Consigliere di Enrico III di Francia, un piacevol compagnetto, Epicuro per la vita.
Qual è la chiave di lettura di ciò? Mi sembra più che evidente. Giordano Bruno visse tutta la sua vita in modo passionale ma coerente; finché si sentì inserito a pieno titolo nei ranghi dell’Ordine Domenicano non venne meno al giuramento di castità fatto al momento della sua ammissione ma tale giuramento non poteva più legarlo dal momento che da quell’Ordine veniva scacciato. D’altronde, egli stesso ammise, ai giudici veneti, di non ritenere peccato mortale la fornicazione, purché non riguardasse rapporti con donne sposate.
Sinceramente non credo alla millanteria che egli avesse avuto più donne che Re Salomone ma che sia restato casto allorché si trovò fuor di religione resta altrettanto una fola.
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