BIOGRAFIA DI GIORDANO BRUNO IL NOLANO
Con l’ausilio dei documenti conosciuti a tutto il 2008, dei suoi scritti
e di considerazioni logiche e psicologiche sufficientemente ragionevoli
(queste ultime opportunamente evidenziate).
Giordano, al secolo Filippo, Bruno nasce nel 1548 (tra il gennaio ed il febbraio volendo accettare l’ipotesi del suo più puntuale biografo: Vincenzo Spampanato; o forse il 16 maggio considerando alcuni indizi contenuti nel Candelaio) a Nola da Giovanni, alfiere del Conte di Caserta, e da Fraulissa Savolino, piccola proprietaria terriera di Nola.
Bruno visse a Nola fino al 14° anno d’età nel casale di proprietà della sua famiglia posto alle falde del colle Cicala, qui studiò grammatica e Latino prima con un giovane prete, Gian Domenico De Iannello, figlio di una vicina di casa, poi con il maestro Bartolo d’Aloja. Sull’ubicazione della casa dei Bruno si è tanto scritto e tanto ipotizzato. Non essendovi documenti ufficiali che permettessero di risalire alla famiglia del filosofo, i suoi biografi hanno rivolto la loro attenzione alla famiglia della madre, i Savolino; e hanno concluso che il casale dove sarebbe nato e vissuto il giovane Filippo doveva trovarsi nelle vicinanze di S. Giovanni al Cesco, un’antica chiesa al cui posto, oggi, c’è il convento dei frati cappuccini, alle falde del lato Nord-Ovest del colle di Cicala. Tale ipotesi è confutata, con motivazioni etico-sociologiche, dal prof. Alfonso Cerciello che sottolinea come ancora oggi, e a maggior ragione nel XVI secolo, a Nola, nel matrimonio, alla donna ‘spetta portare’ la dote e all’uomo la casa, ed è impensabile che un ufficiale del XVI secolo potesse esimersi da questa consuetudine, ergo, l’abitazione natale di Bruno non poteva essere stata una delle proprietà dei Savolino.
A 15 anni fu mandato a Napoli dove fu iscritto allo Studio pubblico, una sorta di Liceo, le cui lezioni si tenevano presso le stanze dell’Università nel convento di S. Domenico Maggiore. Nello stesso periodo frequentò anche le lezioni private di logica del frate agostiniano Teofilo da Vairano, un eminente studioso di Platone e dei presocratici. Dove abbia vissuto prima di essere ammesso al Convento di S. Domenico Maggiore non è dato saperlo; si può solo supporre che abbia vissuto presso qualche familiare che viveva in Napoli, forse l’orefice Francesco Bruno o lo zio Agostino.
A 17 anni indossò la tonaca, piuttosto tardi per quei tempi; alla sua ‘vestizione’ partecipò anche l’allora Generale dei Domenicani, padre Vincenzo Giustiniani, che potrebbe aver notato le qualità del giovanetto. Bruno da quel momento percorse tutti i gradi ecclesiastici fino al sacerdozio, conseguito nel 1573. Iscritto alla facoltà di Teologia nel 1572 (singolarmente prima di essere ordinato sacerdote) si laureò nel 1575 con una tesi sul Summa contra gentiles di S. Tommaso d’Aquino alla luce del Liber Sentenziarum di Pietro Lombardo commentato dal monaco provenzale Giovanni Capreolo. Alla luce degli scritti e delle vicissitudini di questi tre letterati è ipotizzabile che la tesi di Bruno tendesse a giustificare il superamento delle dispute ancora esistenti nella Chiesa attorno a quei due testi, tanto importanti quanto discordi tra loro. A seguire il giovane Nolano, nella sua crescita culturale, contribuirono le migliori menti della cultura italiana e religiosa del periodo, da padre Giordano Crispo, dal quale è probabile che Bruno prendesse il suo nome da religioso, studioso di Aristotele, a padre Domenico da Nocera, che incontrerà di nuovo nel 1592 a Venezia, a padre Antonino da Camerota.
Sono poche le notizie che si hanno su quegli anni di vita del giovane Bruno. Si sa che il Maestro dei novizi, padre Eugenio Gagliardo, nel 1567 preparò una censura contro di lui per alcune intemperanze che inferivano, comunque, la vita del convento, ma la strappò senza darvi seguito. In concreto, pare che Bruno avesse deriso un confratello che leggeva le sette allegrezze della Madonna, consigliandogli invece la vita de’ Santi padri di frate Cavalca; inoltre, nella sua cella avrebbe tolto tutte le immagini dei santi e lasciato il solo Crocifisso. Anche su questo episodio sono utili alcune considerazioni: si può comprendere lo sdegno delle autorità del convento per l’eliminazione delle immagini dei santi dalla sua cella ma è molto strana l’altra accusa; in effetti la vita de’ Santi padri era utilizzato come testo di studio per i novizi ed è presumibile che il giovane professo Nolano abbia incitato il confratello a studiare piuttosto che a leggere per diletto; quindi il riferimento fatto da Bruno durante il processo veneto a questa sua intemperanza è piuttosto da ritenere un tentativo per dimostrare l’eccessiva rigidità dei padri del convento napoletano. Tra la fine del 1568 e gli inizi del 1569, Bruno fu inviato in missione in un qualche convento della Provincia della Lombardia inferiore, che corrispondeva all’alto Lazio, la Toscana, l’Emilia, la Romagna e le Marche (riconoscimento che spettò solo a sei frati domenicani negli anni 1560-72) e da lì a Roma dove conobbe il Grande Inquisitore, Cardinale Scipione Rebiba, e il Papa, Pio V, al quale avrebbe offerto una sua opera (di natura mnemotecnica), l’Arca di Noè. Pare che nella città eterna, tra le altre cose, abbia dato lezioni di mnemotecnica proprio al Card. Rebiba che avrebbe molto gradito. Quale fosse stata la missione di Bruno non si sa ma non è da escludere che fosse stato lì inviato a prepararsi per il ruolo di consultore per il Sant’Uffizio; in effetti si sa della sua presenza nel convento di Santa Sabina, appena fuori Roma, uno dei ‘santuari’ della cultura domenicana e la conoscenza del Rebiba ne suggerisce la possibilità. Di certo è da tenere in giusta considerazione la scansione temporale. Il Nolano entra in convento nella primavera del 1565 e nel giugno 1566 diviene professo, come da prassi, ma prima di raggiungere i ‘gradi’ di suddiacono e di diacono, dopo poco più di due anni, viene mandato ‘in missione’ fuori del convento. Alquanto strano; a meno che non si ipotizzi un’alta considerazione nei suoi confronti da parte dei superiori.
Tornato a Napoli Bruno, nel giugno del 1571, fu inviato ad Andria e successivamente a Campagna, nel salernitano dove, il 6 settembre del 1573 fu ordinato sacerdote.
Pochi mesi dopo la laurea, conseguita alla fine di luglio del 1575, ebbe una disputa teologica con un confratello toscano, frà Agostino da Montalcino, sulle eresie di Ario e di Sabellio. Il monaco toscano lo denunciò al padre provinciale, frà Domenico Vita (don Cocchiarone, come lo chiamava Bruno) che decise di istruire un processo a suo carico. Bruno, temendo di essere condannato, nei primi giorni di febbraio 1576 fuggì da Napoli e si recò a Roma, presso il convento domenicano di Santa Maria Sopra Minerva.
Che scelta strana! Ma scelta fatta certamente non da uno sprovveduto. E allora, perché? La scelta della sede della Curia generalizia dei Domenicani può essere compresa solo se si ipotizza che il Nolano fosse certo di trovare protettori nel seno dell’Ordine a Roma e comunque prima che lì si venisse a sapere del processo; il che lascia supporre che Bruno fosse già conosciuto e stimato tra le alte gerarchie dell’Ordine e confermerebbe, indirettamente, l’ipotesi sui precedenti trascorsi romani. È, quindi, credibile che si sentisse protetto dal Cardinale Rebiba e/o, forse, dal Cardinale Giustiniani (ex Generale dei Domenicani e ancora potente prelato); ma è anche ipotizzabile che Bruno si sia trovato al centro di intrighi di palazzo magari proprio tra il Rebiba ed il Giustiniani. In effetti, del precedente viaggio a Roma si sa che egli aveva offerto a Papa Pio V L’Arca di Noè, ed è presumibile che sia stato il Rebiba a presentarlo al Pontefice, ma questo libro di cui si è persa ogni traccia forse fece ombra a qualche altro alto prelato? Che sia stato il Giustiniani? O il Rebiba stesso? Di fatto, Bruno restò a Roma meno di due mesi, fin quando arrivò la notizia del processo napoletano a suo carico e venne trovato vicino al Tevere, assassinato, il cadavere di un Domenicano partenopeo con cui aveva litigato in quei giorni. Il filosofo temette di venire incolpato anche di questo delitto e scappò di nuovo (nei processi ‘veneto’ e ‘romano’ non c’è traccia di quest’accusa a suo carico da parte dell’Ordine o delle autorità civili dell’Urbe, ma fu lo stesso Nolano a raccontare l’episodio ai suoi giudici, pertanto è più che probabile che corrispondesse al vero la motivazione che Bruno dà della sua partenza da Roma, mentre è anche da credere che il responsabile di quell’omicidio sia stato poi trovato dalle milizie del Papa). In quei due mesi Bruno cerca anche di presentare al Papa un altro suo libro, che vedrà la luce solo in Francia nel 1582, il Purgatorio de’ l’Inferno, ma anche questo progetto era destinato a fallire… e il libro stesso, come l’Arca di Noè, sparirà nel nulla. Attraversato il Granducato di Toscana, sotto mentite spoglie (Bruno aveva dismesso l’abito religioso), la domenica delle Palme del 1576 il Nolano arrivò a Genova dove restò alcuni giorni. Qui ebbe modo di vedere la ‘mitica’ coda dell’asina che avrebbe condotto in groppa Gesù a Gerusalemme. La Superba dovette offrirgli una ben grama immagine di sé giacché, in quei giorni, imperversava la peste; e forse proprio per questo motivo il Nolano, dopo pochissimi giorni, si diresse verso la vicina Repubblica di Noli, sulla riviera di Levante dove, come dichiarò, soggiornò per 4 o 5 mesi, ad insegnare la grammatica ai fanciulli e Astronomia a ‘certi gentiluomini’. Sugli effettivi periodi di permanenza nelle città che il Nolano visitò prima di lasciare l’Italia verso la fine del 1578, attraversando il passo del Moncenisio, è dovuta un’opportuna precisazione: sommando i tempi da lui dichiarati a quelli presumibili di viaggio da una località all’altra si seleziona un periodo di almeno un anno e mezzo di cui non si hanno notizie; è molto probabile, quindi, che egli abbia tenuto nascosto il soggiorno in qualche località o abbia accorciato i tempi in qualcuna di quelle dichiarate. Perché lascia la Liguria non ce lo dice, sappiamo solo che si reca prima a Savona, dove resta due settimane, e poi a Torino. Qui non fu ben accolto quindi, imbarcatosi, ridiscese il Po e raggiunse Venezia. È, ancora, il caso di sottolineare che ambedue le città erano sede di rinomati stampatori e che Torino era stata risparmiata dalla peste: notizia non di poco conto considerando che al di là delle alpi marittime, invece, Bruno aveva dovuto incontrare quel morbo. Nella città lagunare restò, a credere alle sue affermazioni, altri due mesi quando, probabilmente per timore della peste, che in quei mesi riprendeva virulenza, decise di recarsi in Francia, a Lione, dove intendeva pubblicare i suoi libri (non si sa quali ma certamente più d’uno). A Venezia, comunque, trova il tempo di pubblicare il De Segni de’ tempi e probabilmente ad offrirlo a Sebastiano Venier, l’anziano eroe della battaglia di Lepanto, diventato Doge proprio nei giorni dell’arrivo nella Serenissima di Bruno, e a conoscere personalità di spicco come il monaco servita frà Paolo Sarpi, altro letterato di rilievo dell’Italia del XVI secolo e il diplomatico Giovanni Moro che rincontrerà, ambasciatore, a Parigi nel 1581. Si fermò qualche giorno a Padova dove un confratello gli suggerì di indossare di nuovo la tonaca poi si recò a Brescia, Bergamo e Milano. Sempre attraverso le sue opere sappiamo che a Brescia soggiornò presso il convento dei domenicani e qui fu coprotagonista di un gustoso episodio: un monaco era stato imprigionato perché ritenuto posseduto dal diavolo da quando, improvvisamente, aveva cominciato a profetare e a discorrere di Teologia in molte lingue. Bruno lo convinse a ‘ritornare asino’ se voleva avere salvata la vita e quello, certamente non sciocco, ritornò ad essere l’asino che era. A Bergamo, come anche a Brescia, trovò, ancora, un ambiente ostile per cui si diresse a Milano dove molto probabilmente conobbe Sir Philip Sidney (poeta inglese, cortigiano di Elisabetta I Tudor, e genero del potente Sir Francis Walsingham, il Segretario di Stato di Elisabetta I Tudor, in pratica il capo dei suoi servizi segreti) o Sir Fulke Greville (futuro Lord Brooke). Infine, forse verso la fine di ottobre 1578, attraversò il Moncenisio per recarsi in Francia.
Si fermò, però, a Chambery dove per circa un anno restò nel locale convento domenicano, probabilmente a finire alcune delle sue opere, approfittando del clima di ascetismo che aleggiava lassù tra le montagne, ma anche lì si imbatté in qualcuno che non lo amava e dovette lasciare il convento e andare a Ginevra, la patria dell’eresia calvinista. Perché Bruno, che stava dirigendosi a Lione, cambia direzione e si indirizza a Ginevra? Forse a Milano, o forse proprio a Chambery, avrà incontrato qualcuno che lo ha indirizzato verso quella Repubblica teocratica, o forse nell’eremo tra i monti ha maturato un nuovo progetto. Di certo c’è che, alla luce delle sue peripezie, da quel momento e fino al ritorno a Venezia nel 1591, decise di contattare tutti i potenti (politici e religiosi) d’Europa; forse per incitarli a superare ogni forma di lotta di religione, magari attraverso l’affermazione di quella religione naturale che si rifaceva alla cultura dell’antico Egitto che lui, in qualche modo, propugnava?
A Ginevra, comunque, frequentò il Marchese di Vico, Gian Galeazzo Caracciolo, nobile napoletano ben inserito nella società ginevrina che ne favorì l’integrazione. Bruno aderì, persino, al Calvinismo ma il suo amore per la cultura non gli permetteva di restare lontano dalle Università e cominciò con il seguire le lezioni di logica aristotelica di un importante accademico locale, Antoine De la Faye, che egli trovò assolutamente ignorante, tanto da indurlo a scrivere un libello dal titolo Dei venti errori di M.r De la Faye, ripetuti cinque volte –in un’unica lezione. Agli inizi di agosto 1579 venne imprigionato e il 27 agosto, dopo essere stato obbligato a rinnegare il suo libro, subì l’ultima umiliazione: dovette implorare di essere riammesso alla Cena, vale a dire che dovette chiedere di poter ancora professare il Calvinismo. Subito dopo, però, lasciò la Repubblica di Ginevra e raggiunse, finalmente, Lione.
Meno di un mese dopo, però, era in viaggio verso Tolosa.
Lì Bruno, finalmente, si fermò per più di due anni, insegnando presso la locale Università il De Anima di Aristotele, avendo sostenuto e vinto il concorso per la cattedra di filosofia rimasta vacante. In quel periodo frequenta anche il filosofo scettico portoghese Francisco Sanchez che volle dedicargli il suo libro Quod nihil scitur, chiamandolo filosofo acutissimo; ma Bruno non dovette ricambiare tale stima, considerato che scrisse di lui: “stupefacente che questo asino si dia il titolo di dottore”. Ma la recrudescenza delle lotte tra cattolici ed ugonotti lo indusse a partire per Parigi dove, ben presto, si fece apprezzare per la sua vasta cultura (e anche per la sua formidabile memoria) e venne ricevuto a corte da Enrico III di cui divenne persino amico. Non potendo essere inserito nei ruoli della Sorbona, la famosa Università parigina, in quanto scomunicato dalla chiesa cattolica, venne nominato, dal Re, Lecteur royal. Non si hanno notizie ufficiali di suoi rapporti con la Regina madre, Caterina de’ Medici, ma è molto difficile immaginare che non ne avesse avuti, anche alla luce dei documentati rapporti che ebbe con i politiques, il gruppo di moderati che influenzarono la politica francese in quel periodo e protetti proprio dalla Regina italiana, che non smise mai di favorire i suoi conterranei viventi in Francia e a Parigi. Tra quelli, sicuramente Bruno annoverò più di un amico, come l’Abate di Belleville, Piero Delbene, e il Consigliere Jacopo Corbinelli, suo amico di bisbocce, come sosteneva lo stesso Corbinelli che lo definì “…un piacevol compagnetto, Epicuro per la vita”. Altrettanto possibile, ma anch’essa non documentata, la conoscenza del cognato del Re, Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV, specialmente se si considerano le reiterate domande al riguardo subite dal Nolano sia durante il processo veneto che quello romano. È ben difficile che i giudici dell’Inquisizione insistessero, senza un’adeguata convinzione, su questa ‘conoscenza’ del Nolano.
Nell’aprile del 1583, al seguito dell’ambasciatore francese presso la corte d’Inghilterra, Michel de Castelnau, Bruno lasciò la Francia e si recò a Londra. Due mesi dopo, e non certo per accompagnare Castelnau, era già al seguito del principe polacco Albert Lasky con cui si recò ad Oxford: è più che probabile, considerando le consuetudini dell’epoca, che di questa partecipazione al viaggio nel già famosissimo ateneo fosse quanto meno a conoscenza la stessa Regina Elisabetta I, seppur non ne sia stata addirittura l’ispiratrice. Ad Oxford egli ha un primo scontro con i professori di quell’Università che non ha seguito poiché il Nolano riprese il viaggio di ritorno a Londra con il diplomatico polacco. Ad agosto, abbastanza stranamente considerato come era stato trattato nella visita precedente, venne richiamato ad Oxford e gli fu offerta una cattedra, ma dopo poche lezioni venne accusato di plagio nei confronti di Marsilio Ficino, alla cui opera si stava richiamando durante una lezione senza citarlo, e dovette lasciare per la seconda volta e stavolta definitivamente Oxford.
È probabile che la Regina stessa, o i suoi nobili protettori inglesi, abbiano tentato di far riavvicinare Bruno all’establishment oxoniano ma durante una memorabile cena a casa di Sir Fulke Greville a cui parteciparono i professori John Underhill e George Turner, la sera di carnevale del 1584, Bruno ruppe definitivamente con i professori di Oxford. Subito dopo scrisse una delle sue opere più belle, La Cena de le ceneri; scritta in italiano forse proprio per riaffermare il suo orgoglio per la patria lontana. Infatti Bruno ha scritto sempre in Latino; le uniche opere in Italiano, probabilmente anche le più belle e significative, le ha scritte tutte in Inghilterra, ad eccezione della sua unica commedia, il Candelaio, pubblicata qualche anno prima in Francia ma forse iniziata già in Italia.
Dall’Inghilterra non fu costretto a fuggire, ma dovette comunque partire al seguito del suo mecenate, De Castelnau, che rientrò in Francia dove la Lega cattolica di Enrico di Guisa, che aveva preso il sopravvento, aveva imposto un nuovo ambasciatore a Londra, Guillame de l’Aubepine de Chateauneuf. È probabile che a determinare l’allontanamento di De Castelnau da Londra abbia contribuito la cattiva gestione dell’affaire Maria Stuarda; la prigionia e l’isolamento a cui fu costretta Mary Stuart (Maria Stuarda), la Regina di Scozia appartenente alla famiglia dei Guisa, che l’ambasciatore non era riuscito a proteggere e ad aiutare in modo efficace come si pretendeva a Parigi, non poteva essere piaciuta dal Duca Enrico di Guisa, il Re di Parigi, come lo chiamavano i suoi partigiani. Non ebbe, certo, miglior fortuna però il suo successore che dovette persino assistere, impotente, alla decapitazione della regale rampolla della famiglia più potente d’Europa per volontà della ‘cugina’ Elisabetta I.
Bruno restò a Parigi altri 6 mesi ma, in seguito ad una sgradevole contesa con il matematico salernitano Fabrizio Mordente, protetto del Guisa, che si sentì preso in giro da Bruno che aveva presentato l’invenzione di un particolare compasso fatta dal Mordente, e ad una disputa su Aristotele tenutasi presso il Collège de Cambrai, la sede dei Lecteurs roiaux, durante la quale il suo discepolo Jean Hennequin, che disputava a suo nome, venne sbeffeggiato il Nolano, capito di non godere più della protezione del Re e forse anche di non più ben visto da questi, lasciò definitivamente la Francia.
Dopo una breve sosta a Treviri, patria di Sant’Ambrogio e ancora cattolica, si recò a Magonza e Wiesebaden ma non trovando posto presso quell’Università si diresse a Würzburg, dove restò pochi giorni anche se ebbe il tempo di conoscere il Gesuita Nicolò Serario, molto rispettato presso quella collettività e da qui a Francoforte sul Meno, la patria del libro (già allora la Fiera del Libro vi si teneva ed era famosa). Il primo impatto con la città cosmopolita non fu dei migliori e Bruno, ben presto, fu obbligato a lasciarla, per motivi che non ci sono pervenuti; si recò a Marburgo dove si iscrisse all’Università ma dopo meno di un mese litigò con il Rettore Pietro Nigidio e dovette partire ancora.
Ad agosto del 1586 finalmente era a Wittenberg dove resterà, amato e rispettato, fino al marzo del 1588, finché in Sassonia la fazione calvinista non prevalse su quella luterana che lo proteggeva. Anche a Wittenberg Bruno probabilmente ha perseguito la sua ‘missione’, infatti prese contatto con Alberigo Gentili, il famoso giurista che fu il primo ‘organizzatore’ della civil law inglese, che forse aveva già conosciuto ad Oxford e con cui difficilmente aveva avuto buoni rapporti. Il Gentili era a Wittenberg con mansioni ufficiali presso la locale ambasciata inglese e, forse, Bruno sfruttò la sua conoscenza per inserirsi presso la Corte sassone.
Presso l’università sassone Bruno fece anche la conoscenza di importanti personalità della cultura tedesca come il Frischlin e Ticho Brahe, anche se i loro rapporti non saranno stati sempre facili. Quello, fu un altro periodo molto fecondo per la sua produzione letteraria; è lì che probabilmente presero forma, se anche non le completò, opere come il De Minimo, il De Monade ed il De immenso oltre ad alcune opere ‘magiche’ e mnemotecniche. Come dall’Inghilterra, anche qui non dovette scappare anzi, prima della partenza il Nolano pronunziò un’orazione di ringraziamento presso l’Università molto apprezzata dall’uditorio che sarà anche una tra le sue opere più belle, la Oratio valedictoria, opera piccola ma molto significativa.
La tappa successiva delle sue peregrinazioni europee fu la sede del Sacro Romano Imperatore, Rodolfo II d’Asburgo: Praga.
Qui Bruno vi restò poco più di 6 mesi. In questo periodo ebbe il tempo di comporre e dedicare all’Imperatore un’altra opera, gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, e di frequentare importanti personalità quali l’ambasciatore spagnolo Don Guglielmo De Haro, marchese di S. Clemente, discendente di Ramon Llull, il filosofo e mistico catalano molto considerato dal Nolano; al diplomatico spagnolo dedica il De lampade combinatoria lulliana e il De lulliano specierum scrutinio. Altre importanti conoscenze furono Johann Matthäus Wacker von Wackenfels, Lambert Scehckel e, forse, anche il famoso mago inglese John Dee, amico e confidente della Regina Elisabetta d’Inghilterra.
Lasciata Praga Bruno ritornò in Germania, a Ratisbona prima, poi a Tubinga, dove restò appena una settimana prima di essere addirittura pagato purché lasciasse quell’Università. Lì conobbe Michael Maestlin, il matematico insegnante di Keplero (che contesterà a Galilei il non aver riconosciuto la primogenitura delle sue idee al Nolano).
Lasciata Tubinga Bruno, sempre per via fluviale, la sua preferita, raggiunse il Ducato di Brunswick e l’Università di Helmstadt, dove venne accolto dal Duca Giulio prima e dal suo successore, il figlio Enrico Giulio, che probabilmente ne divenne anche allievo. Dall’inizio del 1589 fino all’aprile 1590 restò nel Brunswick da dove, ufficialmente a causa di dissapori religiosi, stavolta con il teologo luterano Gilbert Heinrich Vöet, partì per recarsi per un breve periodo a Magdeburgo poi di nuovo a Francoforte dove venne accolto nel convento dei carmelitani, giacché persisteva ancora a suo carico l’inibizione a rientrare in città; inibizione che gli fu revocata dopo alcuni mesi. Qui, finalmente, Bruno riuscì a pubblicare i suoi poemi francofortesi (che aveva cominciato a Wittenberg) presso l’editore Johann Wechel. Per un breve periodo si recò anche a Zurigo dove insegnò un paio di mesi ad almeno due illustri allievi, il teologo protestante Raphael Egli e Hans Heinrich Heinzel von Dergernstein, presso il cui castello soggiornò poi, al suo ritorno a Francoforte, ricevette l’invito di un nobile gentiluomo veneziano, Giovanni Mocenigo, che aveva letto alcune sue opere e gli scrisse di voler apprendere da lui l’arte della memoria. Bruno non era del tutto convinto di ritornare in Italia ma il Mocenigo gli scrisse una seconda lettera e il filosofo si convinse. Nel suo soggiorno in Germania Bruno, probabilmente, creò una vera e propria rete di allievi; ciò alla luce della corrispondenza intrattenuta dai vari Hieronymus Besler, Valtin (Acidalius) Havenkenthal, Michael Forgacz, Hansi von Warnsdorf e il giovane Daniel Rindfleisch; ma anche a Praga con Lambert Scehckel e Johann Matthäus Wacker von Wackenfels. Inoltre, i documentati rapporti con Alberigo Gentili, John Florio, Philip Sidney, Francis Bacon, Fulke Greville e Matthew Gwinne in Inghilterra lasciano aperta la porta all’ipotesi di un altro gruppo di seguaci del Nolano oltremanica; così come anche in Francia dove, oltre ad eventuali ma sconosciuti allievi a Tolosa, ha intessuto rapporti molto stretti, certi e documentati, con personalità della cultura come Jacopo Corbinelli, Piero Delbene, il bibliotecario di Saint Victor, Guillaume Cotin, e il suo discepolo riconosciuto Jean Hennequin. A Venezia, infine, sono documentati i suoi rapporti con frà Paolo Sarpi, il diplomatico Giovanni Moro, lo storico Andrea Morosini, tutti suoi potenziali ‘discepoli’ oltre, ovviamente, al ‘traditore’ Giovanni Mocenigo. È anche ipotizzabile che Bruno, tra Padova e Venezia, abbia conosciuto e frequentato lo stesso Galileo Galilei.
Rientrato in Italia, però, il Nolano diede sì lezioni al Mocenigo ma andando a vivere a camera locanda; tentò anche di accaparrarsi la cattedra di matematica, vacante dalla morte del prof. Moletti, all’Università di Padova (cattedra che fu assegnata, ma solo due anni dopo, al Galilei) ma non l’ottenne. I suoi soldi però finirono presto e Bruno, nel marzo del 1592, fu costretto ad accettare l’ospitalità del Mocenigo e finì con l’andare ad abitare presso di lui. A maggio di quell’anno il patrizio veneziano denunziò il Nolano all’Inquisizione.
Non si conoscono i veri motivi che indussero il Mocenigo a quell’insano gesto ma da alcune frasi del processo, e dalle tante reticenze, si può anche ipotizzare che tali motivi fossero di natura personale anziché religiosi o politici. Nella prima, delle quattro denuncie che il patrizio veneziano consegnò all’inquisizione veneta si può leggere che Bruno avrebbe sostenuto «che è biastemia grande quella de’ cattolici il dire che il pane si transustantii in carne; che lui è nemico della messa; che niuna religione gli piace; che Christo fu un tristo et che, se faceva opere triste di sedur popoli, poteva molto ben predire di dover esser impicato; che non vi è distintione in Dio di persone, et che questo sarebbe imperfetion in Dio; che il mondo è eterno, et che sono infiniti mondi, et che Dio ne fa infiniti continuamente, perché dice che vuole quanto che può; che Christo faceva miracoli apparenti et che era un mago, et così gl’appostoli, et che a lui daria l’animo di far tanto, et più di loro; che Christo mostrò di morir mal volentieri, et che la fuggì quanto che puoté; che non vi è punitione de’ peccati, et che le anime create per opera della natura passano d’un animal in un altro; et che come nascono gli animali brutti di corrutione, così nascono anco gli huomini, quando doppo i diluvi ritornano a nasser. Ha mostrato dissegnar di voler farsi autore di nuova setta sotto nome di nuova filosofia; ha detto che la Vergine non può haver parturito, et che la nostra fede catholica è tutta di bestemie contro la maestà di Dio; che bisognarebbe levar la disputa e le entrate alli frati, perché imbratano il mondo, che sono tutti asini, et che le nostre openioni sono dotrine d’asini; che non habbiamo prova che la nostra fede meriti con Dio; et che il non far ad altri quello che non voressimo che fosse fatto a noi basta per ben vivere; et che se n’aride di tutti gl’altri peccati; et che si meraviglia come Dio supporti tante heresie di catholici. Dice di voler attendere all’arte divinatoria, et che si vuole far correre dietro tutto il mondo; che san Tommaso et tutti li dottori non hanno saputo niente a par di lui, et che chiariria tutti i primi theologhi del mondo, che non sapriano rispondere […]».
Dopo una seconda denuncia di Mocenigo, che non aggiunse nulla di nuovo alle accuse già formulate, e gli interrogatori del capitano del Consiglio dei Dieci, Matteo d’Avanzo e dei librai Giovan Battista Ciotti e Giacomo Brictano, il 26 maggio venne interrogato Bruno, che raccontò del litigio col Mocenigo e narrò della sua vita, ricordando come fosse stato ordinato frate domenicano e anche di essere stato processato due volte a Napoli dall’Ordine e di aver deposto l’abito; il 29 maggio Mocenigo presentò una terza denuncia, in cui risaltava un elemento del tutto nuovo, cioè che a Bruno «piacevano assai le donne, et che non havea arivato ancora al numero di quelle di Salamone; et che la Chiesa faceva un gran peccato nel far peccato con quello con che si serve così bene alla natura». È, questa, un’accusa così banale ed irrilevante che sembra quasi denunciare il retropensiero del patrizio veneziano il quale, dopo essersi accertato che Bruno restasse associato alle carceri dell’Inquisizione, con pesanti accuse di natura religiosa, potrebbe aver mostrato il vero motivo che lo aveva mosso alla delazione: forse temeva che Bruno fosse diventato l’amante di sua moglie?
Il 30 maggio, nel secondo “costituto”, Bruno concluse la narrazione della sua vita, trascorsa in gran parte in Svizzera, Francia, Inghilterra e in Germania, ma tacque particolari compromettenti, come la sua conversione al calvinismo.
Dopo le tre denunce e i due interrogatori, il collegio giudicante imputò al Nolano i seguenti capi di accusa:
1 – avere opinioni contrarie alla fede cattolica
2 – avere opinioni eretiche sulla Trinità, la divinità e l’incarnazione di Cristo
3 – avere opinioni eretiche su Cristo
4 – avere opinioni eretiche sull’eucaristia e la messa
5 – credere nell’esistenza e nell’eternità di più mondi
6 – credere nella metempsicosi
7 – praticare la divinazione e la magia
8 – non credere nella verginità di Maria
9 – essere lussurioso
10 – vivere al modo degli eretici protestanti
Nel terzo costituto del 2 giugno, Bruno presentò la lista delle sue opere, difendendosi dalle diverse accuse di eresia distinguendo la sua attività intellettuale di filosofo, fondata dall’uso della ragione, dalle opinioni che un cristiano deve tenere per fede: «La materia de tutti questi libri, parlando in generale, è materia filosofica et, secondo l’intitulation de detti libri, diversa, come si può veder in essi: nelli quali tutti io sempre ho diffinito filosoficamente et secondo li principii et lume naturale, non havendo riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto; et credo che in essi non si ritrova cosa per la quale possa esser giudicato, che de professo più tosto voglia impugnar la religione che essaltar la filosofia, quantonque molte cose impie fondate nel lume mio naturale possa haver esplicate».
Negato di aver direttamente mai insegnato contro la religione cattolica, ma semmai indirettamente, come avviene insegnando di Aristotele e Platone, che non sono cristiani, riassunse con particolare forza la propria cosmologia, tratta dai suoi ultimi libri, De minimo, De monade, De immenso et innumerabilibus e De compositione imaginum: «Et in questi libri particularmente si può veder l’intention mia et quel che ho tenuto; la qual, in somma, è ch’io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potentia, perché io stimavo cosa indegna della divina bontà et potentia che, possendo produr, oltra questo mondo un altro et altri infiniti, producesse un mondo finito. Sì che io ho dechiarato infiniti mondi particulari simili a questo della terra, la quale con Pittagora intendo un astro, simile alla quale è la luna, altri pianeti et altre stelle, le qual sono infinite; et che tutti questi corpi sono mondi et senza numero, li quali constituiscono poi la università infinita in uno spatio infinito; et questo se chiama universo infinito, nel qual sono mondi innumerabili […]»
«Di più, in questo universo metto una providenza universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta et si move et sta nella sua perfettione; et la intendo in due maniere, l’una, nel modo con cui presente è l’anima nel corpo, tutta in tutto et tutta in qual si voglia parte, et questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l’altra, nel modo ineffabile col qual Iddio per essentia, presentia et potentia è in tutto e sopra tutto, non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile […]»
«Quanto poi a quel che appartiene alla fede, non parlando filosoficamente, per venir all’individuo circa le divine persone, quella sapienza et quel figlio della mente, chiamato da’ filosofi intelletto e da’ theologi Verbo, il qual se deve credere haver preso carne humana, io stando nelli termini della filosofia non l’ho inteso, ma dubitato et con incostante fede tenuto; non già che mi riccordi de haverne mostrato segno in scritto né in ditto […] Così quanto al Spirito divino per una terza persona, non ho possuto capire secondo il modo che si deve credere; ma secondo il modo pittagorico, conforme a quel modo che mostra Salomone, ho inteso come anima dell’universo, overo assistente all’universo […]»
«Da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia provenire la vita et l’anima a ciascuna cosa che have anima et vita, la qual però intendo essere immortale; come anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte che divisione et congregatione […]».
Dopo una pausa, venne ancora interrogato: sul problema della Trinità, sostenne di credere in un Dio distinto in Padre, Figlio e Spirito Santo, ma ammise di non aver potuto capire come essi «possano sortir nome di persone; poiché non mi pareva che questo nome di persona convenisse alla divinità, confortandomi a questo le parole di san Agustino». Anche i suoi dubbi sull’incarnazione di Cristo vengono spiegati attraverso deduzioni filosofiche, «perché tra la substantia infinita et divina, et finita et humana, non è proportione alcuna com’è tra l’anima e il corpo». Negò recisamente di aver dubitato dei miracoli, di aver disprezzato Cristo, gli apostoli, la fede cattolica e i suoi teologi, sostenne di credere nella necessità delle buone opere per ottenere la salvezza, nella transustanziazione e nella bontà della confessione e della messa, anche se ammise di non praticarle da sedici anni, a causa del suo abbandono dell’abito religioso. Riconobbe di aver considerato, per leggerezza e in occasione di discorsi oziosi, veniali i peccati della carne e ammise di aver letto, per sola curiosità, libri di Melantone, di Lutero e di Calvino ma dichiarò di disprezzare «li sopradetti heretici et dottrine loro, perché non meritano nome di theologi ma de pedanti».
Sulla questione dell’immortalità delle anime e della loro possibile migrazione da un corpo all’altro, rispose di ritenere che «l’anime siano immortali et che siano substantie subsistente, cioè anime intellettive, et che, catholicamente parlando, non passino da un corpo all’altro, ma vadino o in paradiso o in purgatorio o in inferno; ma ho ben raggionato, et seguendo le raggion filosofiche, che, essendo l’anima subsistente senza il corpo et inexistente nel corpo, possa col medemo modo che è in un corpo essere in un altro, et passar de un corpo in un altro: il che, se non è vero, par almeno verisimile l’opinione di Pitagora».
Il giorno dopo, 3 giugno, ammise di aver trascurato i digiuni, risiedendo in paesi di eretici, solo per non «disgustarli», come di aver ascoltato le loro prediche solo per curiosità, ma di non aver mai celebrato la loro eucaristia. Ammise anche di aver lodato la regina Elisabetta, chiamandola Diva, nel suo libro De la causa, principio et uno per puro vezzo letterario. Negò di aver mai conosciuto Enrico di Navarra né di averlo mai lodato se non per ottenerne favori che gli dessero possibilità di lavoro, com’era avvenuto con il precedente regnante. Negò anche di aver mai praticato arti magiche e di possedere libri di tal genere, che dichiarò di disprezzare; soltanto, avrebbe voluto studiare l’astrologia giudiziaria, ma di non averne avuto mai il tempo. A questo proposito, il giorno dopo Bruno precisò di aver «fatto trascrivere a Padoa un libro De sigillis Hermetis et Ptolomei et altri, nel quale non so se, oltre la divinatione naturale, vi sia alcun’altra cosa dannata; et io l’ho fatto trascrivere per servirmene nella giuditiaria; ma ancor non l’ho letto, et ho procurato d’haverlo, perché Alberto Magno nel suo libro ‘De mineralibus’ ne fa mentione, et lo loda nel loco dove tratta ‘De imaginibus lapidum’».
Il processo sembrava essere giunto a un punto morto: i giudici erano convinti (?) del passato eretico di Bruno e non credevano (?) alla sua sincerità, ma non avevano elementi concreti e sufficienti per giungere a una condanna, pertanto, il 23 giugno, interrogano anche il nobile Andrea Morosini, il quale testimoniò che Bruno, in casa sua, non aveva mai insegnato dottrine eretiche. Nel settimo e ultimo costituto, il 30 luglio 1592, gli chiesero di «espurgar» la coscienza, dal momento che «l’apostasia de tanti anni» lo rende «molto suspetto della santa fede». Bruno accettò di confessare «li errori miei prontamente, et son qui nelle mani delle Signorie Vostre illustrissime per ricever remedio alla mia salute; del pentimento de’ miei mesfatti non potrei dir quanto è, né esprimere efficacemente, come desiderarei, l’animo mio».
Poi s’inginocchiò: «Domando humilmente perdono al Signor Dio et alle Signorie Vostre illustrissime de tutti gli errori da me commessi; et son qui pronto per essequire quanto dalla loro prudentia sarà deliberato et si giudicarà espediente all’anima mia […] et se dalla misericordia d’Iddio et delle Signorie Vostre illustrissime mi sarà concessa la vita, prometto far riforma notabile della mia vita, ché ricompenserò il scandalo che ho dato con altrettanta edificatione».
Il processo, per l’Inquisizione veneziana, sembrava finito per il meglio, ma per quella romana doveva ancora cominciare; inoltre, per Bruno, all’orizzonte si delineava un altro pericolo: a Venezia egli divideva la cella con altri detenuti ed era inevitabile che la promiscuità in regime di reclusione portasse a parlare e a confidarsi, e di questo il Nolano fece, ben presto, amara esperienza.
Copia degli atti del processo vennero inviati al Tribunale di Roma e il Prefetto della Sacra Congregazione del Sant’Uffizio, il Grande Inquisitore, Cardinale di Santa Severina Giulio Antonio Santorio, chiese formalmente l’estradizione di Giordano Bruno a Roma. La richiesta venne respinta dal Senato veneziano il 3 ottobre ma l’insistenza romana, l’intervento del nunzio pontificio Ludovico Taverna, il fatto che Bruno non fosse cittadino veneziano e infine la relazione, favorevole all’estradizione, del procuratore Federico Contarini, incaricato dal Collegio di Venezia di valutare il caso, indussero il Senato a concederla il 7 gennaio 1593.
Bruno era il secondo cittadino di Nola ad essere consegnato dal Senato veneziano all’Inquisizione di Roma: nel 1555 era stato già consegnato il luterano Pomponio de Algerio, che fu bruciato vivo in una caldaia di olio, di pece e di trementina il 19 agosto 1556, in piazza Navona.
Il 19 febbraio una nave sbarca Bruno ad Ancona, in territorio pontificio, e di qui tradotto a Roma dove il 27 febbraio venne incarcerato nel palazzo del Sant’Uffizio.
Il processo, nella capitale della cristianità, fu affidato al cardinale Francisco de Toledo Herrera e istruito, in un primo momento, da frà Alberto Tragagliolo; a seguito della morte del de Toledo, nel settembre del 1596, la causa fu affidata ad un famoso teologo, il Gesuita Roberto Bellarmino che nel 1592 era stato nominato Rettore del Collegio romano e nel 1595 Superiore della Provincia di Napoli. All’inizio del 1597 Clemente VIII lo richiamò a Roma e lo nominò suo consultore teologo come pure Esaminatore dei Vescovi e Consultore del Sant’Uffizio e gli affidò la causa del Nolano. Nel 1599 lo nominò Cardinale presbitero con il titolo di Santa Maria in Via, indicando la motivazione di questa promozione: La Chiesa di Dio non ha un soggetto di pari valore nell’ambito della scienza.
A questo periodo risalì anche la nomina ad assistente del cardinale Madruzzi, il presidente della Congregazione “De Auxiliis” che era stata istituita poco prima per comporre la controversia che era recentemente sorta tra Tomisti e Molinisti a proposito della natura dell’armonia tra grazia efficace e libertà umana.
È più che evidente l’obiettivo del Pontefice: avere nel collegio giudicante le migliori menti in campo teologico. Ciò lascia pensare che, quanto meno, esistevano molti dubbi sulla ereticità del pensiero del Nolano.
Subito dopo la fine del processo Bruno il Bellarmino fu nominato arcivescovo di Capua, sede resasi proprio allora vacante e, di fatto, allontanato da Roma: altro evento su cui riflettere.
I contatti tra il teologo ed il presunto eretico probabilmente furono continui, ma a causa della perdita (?) dei documenti del suo processo (di cui ci resta il solo sommario) non ve n’è traccia. Di certo il Gesuita tentò più volte di convincere il Domenicano dei suoi ‘errori’, ed in effetti Bruno ritrattò molte delle sue idee, ma per contro molte altre tentò di fare accettare al Gesuita.
Giordano Bruno aveva avuto compagni di cella a Venezia, almeno dal settembre 1592, il frate cappuccino Celestino da Verona, il carmelitano fra’ Giulio da Salò, il falegname napoletano Francesco Vaia, un insegnante di Udine, Francesco Graziano, e un certo Matteo de Silvestris, di Orio. Fra’ Celestino, già processato per eresia a Roma dall’Inquisizione, aveva abiurato il 17 febbraio 1587; nuovamente incarcerato a Venezia nel settembre 1592, fu rilasciato l’anno dopo, subito dopo aver denunciato il Nolano (che coincidenza!). Si è ipotizzato che fosse uno squilibrato: confinato a San Severino, nelle Marche, nel 1599 si autodenunciò all’Inquisizione di Venezia e di Roma, di accuse ritenute talmente gravi, che su di esse fu mantenuto il segreto più assoluto e altrettanto segretamente fu pronunciata la sentenza di morte, finché, quasi nascostamente, di notte, fu bruciato in Campo dei Fiori il 16 settembre 1599, esattamente cinque mesi prima di Giordano Bruno e nello stesso luogo. (quanti misteri e quante coincidenze!)
Si è insinuato che egli abbia denunciato il filosofo nolano perché ritenne che questi, durante gli interrogatori, lo avesse denunciato di chissà quali colpe, ma è anche possibile che lo si sia utilizzato come falso testimone; specialmente alla luce del comportamento del cappuccino durante gli ultimi periodi della sua tormentata esistenza.
Sta di fatto che egli, alla fine del 1593, presentò denuncia all’Inquisizione veneziana, elencando una serie di gravissime accuse contro Bruno.
«1. Che Cristo peccò mortalmente quando fece l’orazione nell’orto recusando la volontà del Padre […].
- Che Cristo non fu posto in croce, ma fu impiccato sopra dui legni […].
- Che Cristo è un cane becco fottuto can: diceva che chi governava questo mondo era un traditore, perché non lo sapeva governar bene, ed alzando la mano faceva le fiche al cielo.
- Non ci è Inferno, e nissuno è dannato di pena eterna, ma che con tempo ognuno si salva […].
- Che si trovano più mondi, che tutte le stelle sono mondi, ed il credere che sia solo questo mondo è grandissima ignoranza.
- Che, morti i corpi, l’anime vanno trasmigrando d’un mondo nell’altro, dei più mondi, e d’un corpo nell’altro.
- Che Mosè fu mago astutissimo e, per essere nell’arte magica peritissimo, facilmente vinse i maghi di Faraone; e ch’egli finse aver parlato con Dio nel monte Sinai, e che la legge da lui data al popolo Ebreo era da esso imaginata e finta.
- Che tutti i Profeti sono stati uomini astuti, finti e bugiardi […].
- Che il raccomandarsi ai Santi è cosa redicolosa e da non farsi.
- Che Cain fu uomo da bene, e che meritamente uccise Abel suo fratello, perché era un tristo e carnefice d’animali.
- Che, se sarà forzato tornar frate di S. Domenico, vuol mandar in aria il monasterio dove si troverà e, ciò fatto, subito vuol tornare in Alemagna o in Inghilterra tra eretici per più comodamente vivere a suo modo ed ivi piantare le sue nuove ed infinite eresie […].
- Quel c’ha fatto il breviario, ovvero ordinato, è un brutto cane, becco fottuto, svergognato, e ch’il breviario è come un leuto scordato […] dovrebbe esser abbrugiato.
- Che quello che crede la Chiesa, niente si può provare».
L’Inquisizione veneziana effettuò i riscontri della denuncia di fra’ Celestino con le testimonianze degli altri compagni di carcere di Bruno, i quali non confermarono tutte le accuse del cappuccino; il Graziano, tuttavia, aggiunse un nuovo elemento di accusa, dichiarando che Bruno «non haveva alcuna divotione alle reliquie de’ santi, perché si poteva pigliare un braccio di un impiccato fingendo che fosse di santo Hermaiora, e che se le reliquie, che buttò per il fiume e per il mare il re d’Inghilterra fossero state vere havriano fatto miracoli, et in questo proposito ragionava burlando» e che «biasimava l’imagini e diceva ch’era un’idolatria, e se ne burlava con certi gesti brutti e profani».
Esaurite le deposizioni, da Venezia la documentazione fu inviata al Tribunale di Roma: oltre ai dieci capi di imputazione già accertati, risultavano ora altri dodici:
11 – opinioni eretiche su Cristo
12 – opinioni eretiche sull’inferno
13 – opinioni eretiche su Caino e Abele
14 – opinioni eretiche su Mosè
15 – opinioni eretiche sui profeti
16 – negazione dei dogmi della Chiesa
17 – riprovazione del culto dei santi
18 – disprezzo del breviario
19 – blasfemia
20 – intenzioni sovversive contro l’Ordine domenicano
21 – disprezzo delle reliquie dei santi
22 – negazione del culto delle immagini
Alle vecchie e nuove accuse Bruno, dopo aver ammesso di aver qualche volta bestemmiato e aver negato gran parte delle accuse, oppose una serie di precisazioni: non sostenne mai che Cristo fosse stato impiccato, ma di aver discusso della forma della croce su cui fu crocefisso; che delle arti magiche di Mosè parlano anche le Scritture, non lui; che quello del verso dell’Ariosto era stato un episodio scherzoso di quando era ancora novizio nel convento di Napoli. Scherzosi erano stati gli apprezzamenti su Caino ed Abele dal momento che se questi «amazzando gli animali era tristo, l’altro che aveva animo d’amazzar il fratello non poteva esser se non peggio»; sul problema della metempsicosi precisò di aver sostenuto filosoficamente che l’anima, in quanto immortale, e dunque puro spirito vivente senza un corpo materiale, avrebbe la possibilità, puramente teorica, di penetrare in un qualsiasi corpo.
Interrogato ancora sulla pluralità dei mondi, ribadì che a sua opinione «il mondo e li mondi e l’università di quelli esser generabili e corruttibili, e questo mondo, cioè il globo terrestre, haver havuto principio e poter haver fine; similmente le altre stelle, che sono mondi come questo è mondo o alquanto megliori, o anco alquanto peggiori per possibile, e sono stelle come questa è stella; tutti sono generabili e corruttibili come animali composti di contrarii principi, e così l’intendo in universale, et in particolare creature, e che secondo tutto l’essere dependono da Dio […] in ciascun mondo dico che necessariamente vi sono li quattro elementi come nella terra […] quanto agl’huomini, idest creature rationali […] è da credere che vi siano animali rationali. Quanto poi alla conditione del loro corpo, se è corruttibile come il nostro o no, questo non si conclude per scientia, ma è cosa creduta da Rabini et altri santi nel Testamento nuovo che siano animali per gratia di Dio immortali […] e san Tomasso dice non esser cosa che faccia scrupolo in fede se gli angeli sono corporei o non, la quale autorità stante, credo mi sia lecito opinare che in quei mondi siano animali rationali et viventi et immortali, quali per consequenza si chiamano più tosto angeli che huomeni e si diffiniscono con li platonici tanto filosofi, quanto christiani teologi nutriti ne la disciplina platonica, animali rationali immortali».
Già alla fine del 1594 gli inquisitori avevano concluso la raccolta delle testimonianze ed avevano trasmesso gli atti al collegio dei cardinali incaricati di emettere la sentenza. Questi non ritennero però sufficienti gli elementi raccolti, ritenendo di dover esaminare le opere pubblicate da Bruno per penetrare al meglio il suo pensiero. Ma i libri del Nolano in possesso del Sant’Uffizio erano pochi: il Cantus Circaeus, il De minimo, il De monade e il De la causa, principio et uno pertanto il Papa stesso ordinò di reperire gli altri libri di Bruno – fu controllata infine anche la Cena delle Ceneri – e in attesa che una commissione di teologi si pronunciasse sul loro contenuto, la sentenza venne rinviata sine die.
Finalmente, dopo più di due anni, il 24 marzo 1597, davanti alla Congregazione dei cardinali Giulio Antonio Santorio, Pedro de Deza Manuel, Domenico Pinelli, Girolamo Bernerio, Paolo Emilio Sfondrati, Camillo Borghese e Pompeo Arrigoni, oltre ad altri commissari, fra i quali il Bellarmino, che sarà nominato cardinale due anni dopo, Bruno venne interrogato sotto tortura (era almeno la seconda volta); al termine gli furono consegnate le censure, contestazioni scritte alle sue opinioni considerate erronee.
La prima censura riguarda la generazione delle cose e i due principi dell’esistenza, l’Anima del Mondo[1] e la Materia Prima, individuate nel De causa, principio et uno. Bruno risponde che si tratta di principi eterni a parte post, cioè creati da Dio;
la seconda proposizione censurata riguarda l’affermazione secondo la quale a una causa infinita corrispondesse un effetto infinito, che Bruno conferma;
la terza censura riguarda il problema della creazione dell’anima umana: nelle opere bruniane ogni anima individuale si discioglie nell’ anima del mondo, ma di fronte all’Inquisizione Bruno – probabilmente contro la sua intima convinzione – preferisce ammettere un’eccezione per l’anima umana «perché la particolarità del suo essere, che riceve nel corpo, lo ritiene doppo la separatione, a differenza dell’anime de’ bruti, le quali ritornano nell’università del spirito»;
la quarta censura riguarda il principio secondo cui nulla si genera e nulla si corrompe secondo la sostanza, giustificato dal motto biblico «Nihil sub sole novum»: Bruno risponde ripetendo le considerazioni svolte nel suo De la causa, che il genere e la specie delle cose, ossia l’aria, l’acqua, la terra e la luce «non possono essere altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s’aggionge mai o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione e congiuntione, o composizione, o divisione, o translatione da questo luogo a quell’altro»;
la quinta censura riguarda il moto della terra e l’adesione di Bruno alla teoria copernicana, contraddicendo le Scritture, che affermano che «la Terra sta in eterno» e «il Sole nasce e tramonta». Bruno risponde che il modo e la causa del movimento terrestre sono state da lui dimostrate con «raggioni et autorità, le quali sono certe e non pregiudicano all’autorità della divina scrittura, come ognuno ch’ha buona intelligenza dell’una e dell’altra sarà sforzato anco al fine di ammettere e concedere». Quanto allo stare della Terra, nella Bibbia è riferito al suo esistere nel tempo, non già nel suo essere immobile nel luogo e che il nascere e il tramontare del sole è solo apparente, essendo dovuto alla rotazione terrestre. Quanto all’autorità dei Padri della Chiesa, pur essendo «santi, buoni ed esemplari», essi «sono meno de’ filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura»;
la sesta censura riguarda la definizione, data nella Cena delle ceneri, degli astri come angeli, corpi animati razionali, che lodano Dio e annunciano la sua potenza e grandezza: il Sommario del processo, della risposta del Bruno, riporta soltanto che intendeva dire che gli astri sono annunciatori e interpreti della voce divina e della natura, in questo senso sono angeli sensibili e visibili, diversa cosa dagli altri angeli invisibili;
la settima censura riguarda l’attribuzione alla Terra di un’anima sensitiva e razionale. Secondo Bruno, Dio attribuisce realmente un’anima alla Terra, essendo scritto nel Genesi (I, 24) «Producat terra animam viventem», dal momento che la Terra, come costituisce gli animali secondo il corpo, così anima ciascun soggetto con il suo proprio spirito. La razionalità, intrinseca e propria, più che data dall’esterno della Terra, si ricava dalle leggi del suo moto e, come ammettiamo razionalità nell’uomo e anche in esseri a lui inferiori, «molto più degnamente deve trovarsi nella Madre, e non attribuirli un esteriore trudente, spingente, rotante, saepe idem inculcando»;
l’ottava censura è sull’affermazione, fatta nel De la causa, che l’anima sta nel corpo come un nocchiero nella nave, in contrasto con la definizione dogmatica, risalente al concilio di Vienne del 1312, secondo la quale l’anima razionale e intellettiva è forma del corpo umano per sé ed essenzialmente. Bruno risponde che quella è la definizione di Aristotele ma in nessun luogo delle Scritture l’anima è chiamata forma del corpo, bensì è intesa come uno spirito che è nel corpo come abitante nella sua casa, come uomo interiore nell’uomo esteriore, come prigioniera in un carcere, come l’uomo nei suoi vestiti e in altri mille modi.
Si noti come l’Inquisizione abbia trascurato le accuse, più plateali e perfino pittoresche, come quelle eterodosse sui personaggi biblici o sulla blasfemia di Bruno, per concentrarsi sugli elementi fondanti della sua filosofia, nella quale, trasformandosi ogni sostanza – anche l’anima – nell’infinito universo materiale, viene messa in discussione la necessità e il senso dell’esistenza della stessa Chiesa.
Dopo un nuovo lungo rinvio del processo, dovuto alla lontananza da Roma di Clemente VIII, che dal 13 aprile al 19 dicembre 1598 si era recato a Ferrara in occasione della recuperata sovranità sul Ducato d’Este, il 18 gennaio 1599 la Congregazione intimò a Bruno di abiurare le otto proposizioni entro il termine di sei giorni; il 25 gennaio Bruno presentò uno scritto dichiarando di essere disposto all’abiura, purché si riconoscesse che tali proposizioni erano dalla Chiesa considerate eretiche soltanto ora, ex nunc, richiesta che – se poteva essere legittima per quanto atteneva alle proposizioni sull’infinità dell’universo e sul movimento della Terra – palesemente non poteva essere accolta per i temi riguardanti la concezione della Trinità, dell’incarnazione e dell’anima. Il 15 febbraio gli fu pertanto rinnovata la richiesta di abiura, alla quale Bruno rispose di «riconoscere dette otto propositioni per heretiche et essere pronto per detestarle et abiurarle in loco et tempo che piacerà al Santo Offitio», e il giorno seguente presentò un memoriale di cui non si è mai conosciuto il contenuto.
Il 5 aprile Bruno presentò un nuovo scritto sulle otto proposizioni contestate, sul cui contenuto il Bellarmino si pronunciò il 24 agosto di fronte alla Congregazione, rilevando in esso un’effettiva volontà di ritrattazione, tranne che sulla questione del rapporto fra anima e corpo. Il 9 settembre la Congregazione si dichiarava favorevole a ricevere l’abiura degli articoli sui quali Bruno aveva manifestata piena confessione, riservandosi di decidere l’applicazione della tortura per ottenere una piena confessione su altri punti contestati. Questi ultimi riguardavano il suo rifiuto della Trinità, i suoi dubbi sull’incarnazione, la stessa umanizzazione di Cristo e la presunta identificazione dello Spirito Santo con l’Anima del Mondo; elemento, quest’ultimo, essenziale nel sistema filosofico di Giordano Bruno, incentrato nell’animazione universale che produce un’eterna e infinita creazione, nella quale rientra la concezione, incompatibile con la dottrina cristiana, dell’impossibilità dell’eternità delle anime individuali.
L’applicazione della tortura aveva effetto discriminante: se il suppliziato cedeva, diveniva senz’altro confesso; se reggeva con inflessibile animo, conseguiva una dimostrazione formale di innocenza, purgava cioè gli indizi, cancellando col proprio arduo e sofferto diniego la nomea infertagli dai dubbi testimoni. Non uno dei sei consultori [i consulenti dei giudici inquisitori] si mostrò contrario alla tortura.
Il 10 settembre Bruno viene interrogato e si dichiara pronto ad abiurare ma il 16 settembre ha già consegnato alla Congregazione un nuovo memoriale – del quale, ancora una volta, non si conosce il contenuto – inviato al papa, in cui il filosofo rimette in discussione tutte le proposizioni contestate. Gli venne allora intimata nuovamente l’abiura da formalizzare entro quaranta giorni, non essendo pervenuta la quale, il 17 novembre la Congregazione stabilì di concludere il processo.
In attesa della sentenza Bruno, visitato in carcere dal Generale dell’Ordine dei Domenicani Ippolito Maria Beccaria e dal suo Vicario, il Procuratore Paolo Isaresi, il 21 dicembre è nuovamente invitato ad abiurare ma rispose di non avere nulla da abiurare. Il decreto della Congregazione, riunita in seduta plenaria, presente anche il Papa, il 20 gennaio 1600 riferì dell’estremo tentativo di ottenere la ritrattazione ai quali Bruno rispose «di non aver mai scritto o pronunciato proposizioni eretiche, ma che gli erano state malamente estratte e opposte dai ministri del Sant’Uffizio. Perciò era pronto a dar ragione di ogni suo scritto e parola, difendondoli contro qualunque teologo; ai quali teologici non voleva sottomettersi ma soltanto alle determinazioni della Santa Sede apostolica, se ve n’erano, nei suoi scritti o parole, o ai sacri canoni, se si trovassero in essi affermazioni contrarie ai suoi scritti e parole». Questa frase accompagnava un ultimo scritto indirizzato al Papa, che lo aprì ma non lo lesse né lo lasciò agli atti.
Clemente VIII, invece, stabilì che si procedesse nella causa, pronunciando la sentenza e consegnando l’imputato al braccio secolare.
Non si possiede più l’originale della sentenza, ma solo una copia parziale destinata al Governatore di Roma. Nella casa del cardinale Ludovico Madruzzo, adiacente la chiesa di Sant’Agnese, in piazza Navona, i cardinali inquisitori Madruzzo, Santorio, Dezza, Pinelli, Berberi; Sfondrati, Sasso, Borghese, Arrigoni e Bellarmino sentenziarono:
«Essendo tu, fra Giordano […] che tu avevi detto ch’era biastiema grande il dire che il pane si transustantii in carne etc et infra.
Le quali proposizioni ti furno presentate alli XVIII de gennaro MDXCIX nella congregatione de’ signori Prelati fatta nel Santo Offitio et assegnatoti il termine di sei giorni a deliberare et poi rispondere se volevi abiurare le dette proposizioni o no; et poi alli XXV dell’istesso mese […] rispondesti che […] eri disposto a revocarle; et poi immediatamente presentasti una scrittura indrizzata a Sua Santità et a noi […] et successivamente, alli quattro del mese di febraro MDXCIX, fu ordinato che nuovamente ti proponessero le dette otto proposizioni, come in effetto ti furno proposte alli XV di detto mese […] et dicesti all’hora di riconoscere dette otto proposizioni per eretiche et essere pronto per detestarle et abiurarle […] ma poi, avendo tu dato altre scritture nell’atti del Santo Officio et dirette alla Santità di Nostro Signore et a Noi, dalle quali apparisce manifestamente che tu perseveravi pertinacemente negli suddetti tuoi errori.
Et essendosi avuto notitia che nel Santo Offitio di Vercelli eri stato denunziato, che mentre tu eri in Inghilterra eri tenuto per ateista et che avevi composto un libro di Trionfante bestia, ti fu alli diece del mese di settembre MDXCIX prefisso il termine di XL giorni a pentirti […] non dimeno hai sempre perseverato pertinacemente et ostinatamente […] siamo venuti all’infrascritta sententia.
[…] proferimo in questi scritti, dicemo, pronuntiamo, sentenziamo et dichiariamo te, fra Giordano Bruno predetto, essere eretico impenitente et ostinato […] et come tale te degradiamo verbalmente et dechiariamo dover essere degradato, sì come ordiniamo et comandiamo che sii attualmente degradato da tutti gl’ordini ecclesiastici maggiori et minori […] et dover essere scacciato, sì come ti scacciamo, dal foro nostro ecclesiastico et dalla nostra santa et immacolata Chiesa, della cui misericordia ti sei reso indegno; et dover esser rilasciato alla Corte secolare, sì come ti rilasciamo alla Corte di voi monsignor Governatore di Roma qui presente, per punirti delle debite pene, pregandolo però efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilatione di membro.
Di più, condanniamo, riprobamo et prohibemo tutti li sopradetti et altri tuoi libri et scritti come eretici et erronei et continenti molte eresie et errori, ordinando che tutti quelli che sin’hora si son havuti, et per l’avenire verranno in mano del Santo Offitio siano pubblicamente guasti et abbrugiati nella piazza di San Pietro, avanti le scale, et come tali che siano posti nell’Indice de’ libri prohibiti, sì come ordiniamo che si facci […]»
Finita di leggere la sentenza, Bruno, rivolto ai suoi giudici, disse in tono minaccioso: «Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla».
Al Governatore di Roma, il milanese monsignor Ferrante Taverna, che sarà successivamente nominato cardinale da Clemente VIII, fu dunque affidato il condannato a morte Giordano Bruno, perché se ne prendesse cura, evitandogli ogni «pericolo di morte o mutilazione di membro». Così, lo si fece custodire nelle famigerate carceri di Tor di Nona.
Le carceri di Tor di Nona, chiamate “la prigione del Papa”, situate alla sinistra del Tevere, di fronte a Castel Sant’Angelo, erano costituite dalla medievale torre Orsini e dagli edifici che vi si raggruppavano intorno. Furono trasformate cinquant’anni dopo in teatro a seguito della costruzione delle “Carceri nuove” nella vicina via Giulia; teatro che fu a sua volta demolito alla fine dell’Ottocento per far posto ai muraglioni che fiancheggiano il fiume. La maggior parte dei reclusi veniva lì segregata, poi giustiziata nella vicina piazzetta che si apriva davanti al ponte Sant’Angelo; altri luoghi di supplizio erano piazza Navona e Campo de’ Fiori.
Il 12 febbraio 1600, L’ Avviso di Roma riportava che «hoggi credevamo veder una solennissima giustitia, et non si sa perché si sia restata, et era di un domenichino de Nola, heretico ostinatissimo, che mercoledì in casa del cardinal Madrucci sentenziarono come auttore di diverse enormi opinioni, nelle quali restò ostinatissimo, et ci sta tuttora, nonostante che ogni giorno vadano teologhi da lui».
Fu un rinvio di quattro giorni. Il giornale dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato, chiamata a prelevare dal carcere di Tor di Nona i condannati per accompagnarli al rogo, registra il 17 febbraio che Bruno «esortato da’ nostri fratelli con ogni carità, e fatti chiamare due Padri di san Domenico, due del Giesù, due della Chiesa Nuova e uno di san Girolamo, i quali con ogni affetto et con molta dottrina mostrandoli l’error suo, finalmente stette senpre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l’intelletto con mille errori e vanità. E tanto perseverò nella sua ostinatione, che da’ ministri di giustitia fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu brusciato vivo, aconpagniato sempre dalla nostra Compagnia cantando le letanie, e li confortatori sino a l’ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinatione, con la quale finalmente finì la sua misera et infelice vita».
Kaspar Schoppe che, oltre a esser stato presente alla lettura della sentenza, assistette anche al rogo, aggiunge che il supplizio fu allestito di fronte al Teatro di Pompeo – dunque non al centro della piazza, dove ora sorge il monumento al filosofo, bensì molto vicino alle finestre dell’allora ambasciata francese – e che «mentre veniva condotto al rogo e gli si mostrava, in punto di morte, l’immagine del Salvatore crocefisso, torvo in volto la respinse con disprezzo; e così arrostito miseramente morì, andando ad annunciare, io penso, a quegli altri mondi da lui immaginati, in che modo gli uomini blasfemi ed empi sogliono essere trattati dai Romani».
Anche l’ Avviso di Roma ne diede notizia il 19 febbraio: «Giovedi mattina in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato frate domenichino de Nola, di che si scrisse con le passate: heretico ostinatissimo, et havendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro nostra fede, et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi, volse ostinatamente morir in quelli lo scelerato; et diceva che moriva martire e volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso. Ma hora egli se ne avede se diceva la verità».
L’anonimo cronista, oltre a non essere ben informato sul processo, non aveva evidentemente mai letto nulla di Giordano Bruno.
A margine di questo excursus sui due processi subiti dal Nolano, è utile fare alcune considerazioni, anzi meglio, porsi alcune domande.
I verbali del ‘processo veneto’ sono giunti fino a noi perché una copia degli atti era rimasta a Venezia, mentre gli atti del ‘processo romano’ sembrano essersi ‘volatizzati’, ufficialmente perché defraudati dalle truppe napoleoniche durante l’occupazione di Roma. Si dice che lo stesso Imperatore dei Francesi abbia voluto portare a Parigi gli atti del ‘processo Bruno’ e che questi fossero andati successivamente distrutti, durante il periodo della restaurazione, perché utilizzati come carta da imballaggio.
Resta il fatto che nel 1940 il Prefetto dell’Archivio Vaticano Monsignor Angelo Mercati ‘trova’ tra gli effetti personali di Sua Santità Papa Pio IX il Sommario del processo a Giordano Bruno e lo pubblica.
Questi i fatti; ma le domande ci travolgono, subito, come un fiume in piena. Perché il Sommario era tra le ‘carte’ personali di Pio IX e non negli archivi vaticani? Perché i francesi, nel 1799, avrebbero trafugato gli atti del processo e lasciato a Roma il sommario? Perché si è voluto occultare l’esistenza stessa del filosofo nolano? –operazione riuscita per oltre 150 anni-. L’archivio dell’anagrafe di Nola è andato distrutto nella prima metà del XVII secolo per mera fatalità? Forse qualcuno di questi dubbi è eccessivo, ma sono anche tanti quelli che sono sorti; e se tre indizi nel sistema giuridico italiano fanno una prova….
Perché faceva tanta paura il Nolano? Chi era veramente? Di quali segreti era a conoscenza, tali da obbligare i suoi giudici a prolungare la sua detenzione per tanti anni mentre, mediamente, un processo dell’Inquisizione durava dai sei agli otto mesi? È casuale che la condanna del Nolano sia coincisa con il pieno riconoscimento da parte della Chiesa di Enrico IV di Francia (proprio quel monarca della cui conoscenza e frequentazione era stato accusato Giordano Bruno) e con la concessione dell’annullamento del suo matrimonio con Margherita di Valois?
Risposte definitive non ne avremo mai, ma il dubbio che il Nolano non sia stato quello che la Chiesa, la storiografia e la stessa letteratura ci hanno tramandato non ce lo potrà togliere nessuno… ma forse questo è il modo migliore per garantirgli l’immortalità… e vien voglia di salutarlo come amava far lui alla fine delle sue epistole: Vale.
[1] Il ‘Mondo’ in oggetto non è la Terra bensì l’Universo intero.